Lo ha chiarito una sentenza del Consiglio di Stato che si è pronunciato sulla questione rimessa dalla sez. III del Consiglio con sentenza non definitiva 27 dicembre 2021
Una casa di cura non può partecipare ad una società che ha la titolarità di una farmacia. Lo ha chiarito una sentenza del Consiglio di Stato che si è pronunciato sulla questione rimessa dalla sez. III del Consiglio con sentenza non definitiva 27 dicembre 2021, n. 8634, a seguito del ricorso presentato avverso la sentenza n. 106/2021 del Tar Marche, relativa alla sussistenza dell’incompatibilitaÌ€ di un medico socio di una società quest’ultima a sua volta socia di altra società titolare di farmacia.
I Giudici hanno chiarito che la riforma del 2017 ha disciplinato anche il regime delle incompatibilità, si legge su Quotidiano Sanità, modificando l’art.
In precedenza, una regola di incompatibilità (solo) parzialmente simile era dettata all’art. 8, comma 1, della medesima legge, prevedendosi che "1. La partecipazione alle società di cui all'articolo 7, salvo il caso di cui ai commi 9 e 10 di tale articolo, eÌ€ incompatibile: a) con qualsiasi altra attivitaÌ€ esplicata nel settore della produzione, intermediazione e informazione scientifica del farmaco”.
La nuova normativa include quindi tra le incompatibilità anche l’esercizio della professione medica. La necessità di tale previsione deriva dalla possibilitaÌ€, introdotta nel 2017, che i soci non siano piuÌ€ farmacisti, laddove in precedenza potevano ritenersi sufficienti – quanto all’esercizio della professione medica - i divieti posti dal r.d. n. 1256 del 1934 (in specie agli artt. 102 e 112) dettati per i farmacisti persone fisiche titolari ovvero esercenti (da soli o in società di persone) di farmacia.
Il Consiglio di Stato ribadisce l’esistenza di due distinte e separate regole di incompatibilità. La prima definisce la partecipazione (societaria) alle società titolari di farmacie private - riporta Quotidiano Sanità - incompatibile con qualsiasi altra attività svolta nel settore della produzione e informazione scientifica del farmaco, noncheÌ con l'esercizio della professione medica; la seconda, “valorizzando l’inciso “per quanto compatibili”, fa rinvio alle disposizioni del successivo art. 8 che, per quanto piuÌ€ rileva in questa sede, definiscono quella medesima partecipazione (societaria) incompatibile, tra le altre cose, “con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico e privato”.
Punto decisivo nella quesitone in esame - sottolinea il Consiglio di Stato - riguarda il rapporto tra la clinica privata e i medici che in essa (e per essa) svolgono la loro attività. Per i Giudici, infatti, “tale rapporto vede pur sempre rispondere la struttura a titolo contrattuale per il comportamento dei medici della cui collaborazione si avvale per l’adempimento della propria obbligazione, ancorcheÌ possano non essere suoi dipendenti, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costoro effettuata e l’organizzazione aziendale della casa di cura, il che giustifica l’applicazione della regola posta dall’art. 1228 c.c. (come ribadito da ultimo dall’art. 7 della l. n. 24 del 2017)”, conclude la notizia riportata da Quotidiano Sanità.
Pertanto, anche una persona giuridica, in particolare una clinica privata, può considerarsi esercitare, nei confronti dei propri assistiti, la professione medica ai fini della previsione di cui all’art. 7, comma 2, secondo periodo, della l. 362/1991.
L’Adunanza Plenaria ricorda che la ratio tradizionale, riconosciuta anche dalla sentenza della Corte cost. n. 275/2003, è quella di “evitare eventuali conflitti di interesse, che possano ripercuotersi negativamente sullo svolgimento del serviziofarmaceutico e, quindi, sul diritto alla salute” e che ha sempre caratterizzato la disciplina in materia, come dimostrato anche dalle disposizioni penali che ancora puniscono il cd. reato di comparaggio.
Consentire ad una casa di cura, che offre prestazioni mediche composite e nel cui ambito si prescrivono medicinali, di partecipare ad una societaÌ€ che ha la titolarità di una farmacia e che come tale dispensa e rivende medicinali previa prescrizione medica, potrebbe determinare privilegi ed abusi di posizione, oltre che conflitti di interesse ed un esubero nel consumo farmaceutico, con evidenti riflessi anche sulla spesa pubblica.
Nella soluzione del caso di specie vi è un fenomeno di riduzione della compagine sociale ad un solo soggetto “sovrano” che ne determina o comunque ne condiziona, attraverso l’organo amministrativo che egli (solo) nomina (e revoca), tutte le principali scelte. Un fenomeno così forte da rendere in questo caso non necessario il richiamo alla categoria dei gruppi di società e all’attività di direzione e coordinamento, concetti non del tutto coincidenti ma nella pratica (e anche nella previsione di legge, cfr. art. 2497 sexies c.c.) ricavabili a partire dalla nozione di controllo, interno od esterno, di cui all’art. 2359 c.c.
Differentemente, in assenza di una società unipersonale e quindi di una partecipazione totalitaria, (ma sempre ragionando in relazione ad un diverso tipo di incompatibilità) dovrebbe assumere rilevanza una partecipazione che comunque permetta di concorrere nella gestione della farmacia, nel senso di influenzarne le scelte aziendali. Non rileverebbe quindi qualunque partecipazione sociale ma quella che possa dare al socio il controllo della società, nei modi gradatamente indicati dal citato art. 2359 e in presenza dei quali, come si è già osservato, opera la presunzione di direzione e coordinamento (ricavabile anche aliunde, in specie dall’essere la società tenuta al consolidamento del proprio bilancio). Non sono possibili quindi soluzioni fondate su un automatismo, apparendo imprescindibile la valutazione del singolo caso rimessa al prudente apprezzamento dell’amministrazione.
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