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Il medico di famiglia non ha obbligo giuridico di visita domiciliare

Medlex Redazione DottNet | 15/03/2025 17:07

"il medico di base, contrariamente al medico di guardia, non è istituzionalmente preposto a soddisfare le urgenze, le quali rimangono affidate al servizio sanitario di urgenza ed emergenza medica già denominato 118"

Il medico di base, non svolgendo una funzione di assistenza sanitaria di emergenza o comunque con carattere di urgenza, non ha un dovere giuridico di effettuare visita domiciliare ai propri pazienti e, pertanto, nel caso non acconsenta a recarsi al domicilio di un proprio assistito in situazione di urgenza non incorre nel reato di rifiuto di atti di ufficio (Cassazione penale, Sez. VI, sentenza 21 giugno 2024, n. 24722).  Lo riporta Altalex. Un medico di base veniva tratto a giudizio in relazione al reato di rifiuto di atti d’ufficio per non aver effettuato una visita domiciliare a scopo diagnostico e terapeutico ad un proprio assistito che lamentava forti dolori in seguito ad una caduta accidentale ed era perciò in condizioni tali da non potersi recare autonomamente presso l’ambulatorio.

In primo grado, il Tribunale riconosceva il professionista colpevole del reato di cui all’articolo 328 codice penale. Tuttavia, in seguito alla presentazione di atto di impugnazione, la Corte d’Appello assolveva l’imputato dal reato a lui ascritto.

Il ricorso

Avverso la sentenza della Corte d’Appello proponeva ricorso per Cassazione il Procuratore Generale, articolando in due motivi il proprio gravame. Con un primo motivo - si legge su Altalex - veniva contestata la erronea applicazione di norme giuridiche di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale. Premesso che fosse pacifico che le condizioni di salute del paziente non gli permettessero autonomi spostamenti e che lo stesso imputato, in sede dibattimentale, avesse dichiarato di essere consapevole di ciò, il Tribunale lo aveva riconosciuto colpevole poiché il medico di base è tenuto ad effettuare visita domiciliare al paziente in caso di non trasferibilità ai sensi dell'art. 47, comma 1, dell'Accordo Collettivo Nazionale vigente all'epoca dei fatti. La Corte d’Appello, nel ribaltare la sentenza di primo grado, non aveva tenuto in considerazione questo dato essenziale. Con il secondo motivo il ricorrente lamentava il vizio di motivazione, giacché la sentenza impugnata non aveva fornito argomentazioni dettagliate, idonee a giustificare il ribaltamento della decisione di primo grado.

La decisione della Corte

La Corte di Cassazione rigetta il ricorso proposto. Evidenziando che i due motivi presentati sono strettamente correlati tra loro, ragion per cui risulta opportuna una trattazione unitaria degli stessi, in primo luogo i giudici di legittimità sottolineano che la Corte di merito ha riformato la decisione del Tribunale tenendo nella dovuta considerazione e confutando con motivazione scevra da vizi logici le determinazioni che avevano portato in primo grado alla condanna in ordine al reato di cui all’articolo 328 c.p. Anzitutto viene precisato il fatto per cui l’imputato era stato tratto a giudizio, ovvero il non avere effettuato, nella sua qualità di medico di famiglia, una visita domiciliare ad un proprio assistito che era affetto da Parkinson allo stadio avanzato, nonché da problemi cardiaci e - come si scoprirà all’esito del trasporto dello stesso in ospedale - da una frattura vertebrale causata da una caduta accidentale.

Quindi, viene altresì precisata la ratio giuridica che aveva portato il Tribunale a riconoscere il medico responsabile del reato di rifiuto di atti d’ufficio, ovvero la disposizione dall'art. 47, comma 1, dell'Accordo Collettivo Nazionale vigente all'epoca dei fatti, secondo cui: "l'attività medica viene prestata nello studio del medico o a domicilio, avuto riguardo alla non trasferibilità dell'ammalato", da cui sarebbe derivato un obbligo di agire, tale da giustificare l'integrazione del reato omissivo, ad avviso dei giudici di prime cure, elemento che la Corte d’Appello non avrebbe vagliato in maniera adeguata.

Fatta questa premessa in fatto e diritto, la Suprema Corte evidenzia che la disposizione di cui all’art. 47, comma 1, dell’Accordo Collettivo Nazionale non era affatto stata ignorata dalla Corte d'Appello la quale, sia pure senza citarla espressamente, vi aveva fatto un chiaro riferimento. Infatti, la Corte di merito aveva affermato che la questione giuridica rilevante ai fini della decisione del caso concreto non fosse rappresentata dall’adempimento o meno del dovere giuridico del medico di base di procedere a visita a domicilio del paziente non trasportabile, quanto quella dell'esistenza o meno di un dovere di procedere “senza ritardo” ad un tale incombente, stante la situazione di emergenza che si era venuta a configurare nello specifico.

Invero, un simile dovere di agire d’urgenza non era previsto rispetto al medico di medicina generale e da ciò era discesa la decisione della Corte di Appello di assolvere l’imputato dal reato ascrittogli. In particolare la Corte di merito aveva espressamente evidenziato che: "il medico di base, contrariamente al medico di guardia, non è istituzionalmente preposto a soddisfare le urgenze, le quali rimangono affidate al servizio sanitario di urgenza ed emergenza medica già denominato 118", aggiungendo che: "da ciò deriva che per fondare uno specifico obbligo giuridico di prestazioni sanitarie urgenti, anche nelle more del servizio di emergenza, da parte di un pubblico ufficiale sanitario a ciò non preposto, sarebbe stata necessaria una peculiare situazione di prossimità spaziale e di necessità non indifferibile…, ben distante dall'ordinarietà degli accadimenti".

La Corte di legittimità, pertanto, non rileva alcuna lacuna motivazionale, sottolineando invece come la sentenza impugnata distingua in modo netto ed estremamente dettagliato il profilo della trasferibilità del paziente (disciplinato dal citato Accordo Nazionale) da quello dell'urgenza della prestazione richiesta: urgenza in presenza della quale - come nel caso di specie - , trasferibile o meno che fosse il paziente, la Corte d’Appello ha ritenuto scattasse la competenza di altra articolazione sanitaria, ovvero dei medici del c.d. 118.

La Suprema Corte evidenzia ulteriormente che tale ricostruzione non risulta essere né illogica né destituita di fondamento dal punto di vista giuridico, fondandosi su una corretta ripartizione di ruoli che, secondo i principi fondamentali del diritto penale, deve orientare l'interprete nell'individuazione dell'obbligo giuridico che, sempre, nei reati omissivi - anche quelli c.d. propri - costituisce il fondamento della tipicità penale. Distinzione di ruoli che logicamente, da un lato, trova la sua ratio nell'esigenza di assicurare il miglior assolvimento delle funzioni all’interno di un'organizzazione complessa qual è il sistema sanitario, consentendo a ciascun operatore del settore di concentrarsi sui propri compiti specifici e, dall’altro, risponde all'esigenza di evitare sovrapposizioni non soltanto inutili, ma anche potenzialmente dannose, giacché il medico di base non è certo attrezzato a far fronte a situazioni di emergenza e, laddove si facesse affidamento su di lui in simili contesti, sarebbe evidente il rischio di ritardi e confusioni potenzialmente dannosi.

Da ultimo, la Corte di Cassazione evidenzia che la ricostruzione operata nella sentenza impugnata risulta conforme alla consolidata giurisprudenza di legittimità. Infatti, è pur vero che secondo la giurisprudenza della Suprema Corte il delitto di rifiuto di atti d'ufficio è integrato dalla condotta del sanitario in servizio di guardia medica che non aderisca alla richiesta di intervento domiciliare urgente, ma tale consolidata giurisprudenza si riferisce appunto alla differente figura professionale del c.d. medico di guardia. Per tutte queste ragioni la Corte adita rigetta il ricorso.

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