È possibile che lo zucchero, spesso accusato d'essere uno dei principali responsabili dell'obesità, possa, se usato "bene", addirittura aiutare a controllare il peso? A suggerirlo è uno studio appena pubblicato dall'International Journal of Food Science e Nutrition. Alcuni ricercatori dell'Università di Copenaghen, dopo aver osservato, su più di 3300 uomini, che il consumo di zucchero nelle bevande calde era inversamente associato con l' obesità, hanno rianalizzato i dati, considerando tutta una serie di variabili come lo stile di vita, l'attenzione alla dieta, il peso corporeo.
E sono giunti alla conclusione che effettivamente mangiare piccole quantità di zucchero, più volte nella giornata, può aiutare a controllare il peso. Una delle ipotesi formulate dagli autori è che lo zucchero possa stimolare la produzione di un ormone (peptide 1 simil-glucagone) che, in esperimenti condotti su animali, è stato associato con una riduzione delle calorie assunte, agendo presumibilmente sui centri della sazietà.
Già in precedenza alcuni studi epidemiologici avevano d'altronde evidenziato che ad un maggior consumo di zuccheri semplici e di zuccheri complessi, cioè carboidrati, spesso si associa un minor peso, forse perché chi dà più spazio ai carboidrati ne dà meno ai grassi, che sono le sostanze alimentari più caloriche (9 kcal per grammo contro le 4 di proteine e carboidrati). E ci sono dati che suggeriscono che, anche nei regimi ipocalorici, la presenza di piccole quantità di zucchero possa aiutare, rendendo più accettabile la "dieta".
In ogni caso, se gli studi non permettono per ora di trarre conclusioni sull'argomento, autorizzano però a guardare con occhi meno severi lo zucchero che, pur rimanendo un fattore di rischio riconosciuto per la carie dentale, non ha una correlazione diretta con l'obesità, il diabete o le malattie cardiovascolari.
La correlazione emerge per la prima volta da uno studio condotto presso l'Università della California, a Riverside, e pubblicato sul Journal of Clinical Investigation Insight
I ricercatori del Labanof dell’Università Statale di Milano hanno esaminato due scheletri di donne e dei loro feti, con deformità attribuibili all'osteomalacia, una patologia legata alla fragilità ossea e associata alla carenza di vitamina D
Lo rivela uno studio effettuato su 1771 studenti di 48 scuole elementari pubbliche di Madrid
La pratica potrebbe salvare 820.000 vite l'anno
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