La BPCO è una patologia dell’apparato respiratorio caratterizzata da un’ostruzione non completamente reversibile del flusso aereo. Negli ultimi 30 anni la mortalità causata da questa malattia è più che raddoppiata, è si è delineato il profilo di autentica malattia sociale. Ad aggravare il quadro clinico dei pazienti affetti da BPCO si aggiunge la comorbilità con le patologie cardiovascolari. Tra queste ricordiamo l’ipertensione polmonare, lo scompenso cardiaco sinistro e le turbe del ritmo, a cui si associano inoltre patologie di tipo metabolico (diabete, osteoporosi), psichiatriche e gastroenterologiche (ernia jatale, reflusso gastroesofageo). A causa di queste comorbilità i pazienti sono costretti a seguire terapie multiple con conseguente insorgenza di interazioni tra farmaci e con l’aumento esponenziale delle spese Sanitarie.
Per contrastare queste problematiche, si sta delineando sempre più l’utilizzo di una molecola in gradodi sortire un effetto broncodilatatore unito alla capacità di ridurre la pressione arteriosa polmonare e lo stato infiammatorio della mucosa bronchiale: la Doxofillina. La Doxofillina è stata sintetizzata in Italia più di vent’anni fa ed è stata inserita nella classe delle xantine. Questa classificazione ne ha, purtroppo, di fatto limitato l’impiego a causa di un meccanismo mentale di associazione tra efficacia ed effetti collaterali a composti simili, come la teofillina. In realtà la Doxofillina condivide con le xantine l’azione sulle fosfodiesterasi (quindi l’azione broncodilatatrice, antinfiammatoria e vasodilatatrice) ma a differenza di queste ultime non ha un effetto bloccante sui recettori per l’adenosina e quindi non dà effetti collaterali a livello cardiologico e neurologico.
Esame analizza 32 proteine ed è in grado di predire chi ha più probabilità di aver bisogno di cure o di morire per queste patologie
Lo rivela un ampio studio presentato al Congresso della European Respiratory Society (ERS) a Vienna da Anne Vejen Hansen dell'Ospedale Universitario di Copenaghen
I pazienti che hanno ricevuto un trattamento diretto dallo pneumologo hanno avuto un minore utilizzo successivo dell'assistenza sanitaria per malattie respiratorie rispetto a quelli che hanno ricevuto cure abituali
Lo ha accertato uno studio internazionale in collaborazione fra l'Università francese Paris-Saclay, e quelle di Padova, Napoli Federico II e altri atenei stranieri
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