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Risonanza ‘vede ‘ cellule pancreas attive dopo trapianto: metodo innovativo e non invasivo

Diabetologia | 14/06/2010 13:22

Una risonanza magnetica per quantificare la massa di cellule attive che producono insulina. Il metodo non invasivo messo a punto all'ospedale San Raffaele di Milano consente di valutare se il trapianto di isole pancreatiche, a cui può sottoporsi chi fa i conti col diabete, ha avuto successo, ma anche di intervenire entro la prima settimana per migliorare la vitalità delle cellule. Chi soffre di diabete perde pian piano le beta-cellule, le cellule del pancreas che producono insulina in risposta al glucosio nel sangue. Sono loro le protagoniste della malattia: quando muoiono o non funzionano più, le iniezioni dell'ormone diventano indispensabili. I diabetici di tipo 1, la forma in cui il sistema immunitario del paziente distrugge le beta-cellule, possono in alcuni casi provare a sottoporsi a un trapianto di isole pancreatiche, i micro-organi contenuti nel pancreas dove si concentrano le beta-cellule. Oggi, dunque, è possibile valutare con precisione se l'intervento ha avuto successo dopo che le isole sono state infuse nel fegato: con una semplice risonanza magnetica, infatti, si può vedere dove si localizza il tessuto trapiantato e ripetendo la valutazione si può seguire quando e quanto tessuto viene perso nel tempo. Ci sono riusciti i ricercatori del Diabetes Research Institute (Hsr-Dri) dell'ospedale San Raffaele di Milano, che durante il XXIII Congresso nazionale della Società italiana di diabetologia, a Padova fino a domani, hanno presentato i dati preliminari relativi ai primi 4 pazienti trapiantati e poi seguiti attraverso risonanze magnetiche periodiche.

"Abbiamo coinvolto nella sperimentazione quattro diabetici operati nel corso dell'ultimo anno - spiega Lorenzo Piemonti, direttore del programma di trapianto isole dell'ospedale San Raffaele di Milano - Prima di impiantare le isole pancreatiche le abbiamo marcate con nanoparticelle paramagnetiche di ossido di ferro, che poi possono essere visualizzate alla risonanza magnetica: del tutto innocue, le particelle vengono inglobate dalle cellule in laboratorio, prima del trapianto". "Dopo l'intervento - prosegue Piemonti - i pazienti sono stati sottoposti a risonanze magnetiche seriali a 0, 1, 3 e 7 giorni e poi dopo 1, 2, 3 e 6 mesi. Li valuteremo, inoltre, anche a un anno di distanza. Si tratta di un protocollo sperimentale che prevediamo di 'alleggerire' in futuro per sottoporre il paziente a un minor numero di test, anche se la risonanza magnetica senza mezzo di contrasto non comporta alcun pericolo e può essere ripetuta in tutta tranquillità". Il gruppo di ricercatori milanesi è il secondo al mondo a eseguire una sperimentazione simile, dopo un piccolo studio pilota condotto a Ginevra un anno fa su 4 pazienti trapiantati. A oggi nel mondo ci sono soltanto altri 3 centri (università di Ginevra, ateneo di Uppsala in Svezia e Diabete Center di Praga) che stanno sperimentando in clinica questa tecnica di visualizzazione della massa. "Il metodo potrebbe rivelarsi estremamente utile per i pazienti: riusciamo infatti a monitorare il trapianto con estrema precisione, perché la risonanza magnetica evidenzia soltanto le cellule trapiantate - riprende Piemonti - Prima di pubblicare i nostri dati dovremo includere almeno altri 3 pazienti, ma abbiamo già ottenuto importanti risultati. Abbiamo infatti verificato, ad esempio, che entro la prima settimana dal trapianto va persa circa il 40% della massa di tessuto trapiantato; a partire dal primo mese dopo l'infusione la massa si stabilizza, anche se prosegue una lieve, continua perdita di cellule". Ciò significa "che qualsiasi intervento mirato ad aumentarne la sopravvivenza - spiega l'esperto - deve essere intrapreso precocemente per poter essere efficace. Abbiamo inoltre dimostrato che le isole di beta-cellule si distribuiscono a caso nel fegato, dove vengono inserite. Ogni paziente però sembra avere una diversa 'preferenza' nella localizzazione, e con i nostri studi intendiamo valutare se ciò sia correlato a una diversa funzionalità delle cellule.

Se vedessimo che il trapianto ha maggior successo quando si 'stabilisce' in una certa area epatica e individuassimo le caratteristiche del paziente o del tessuto che predispongono a tale distribuzione, potremmo selezionare con maggior cura i candidati migliori all'intervento". I ricercatori del San Raffaele stanno inoltre studiando metodi non invasivi per quantificare la massa di beta-cellule nei soggetti sani ad alto rischio e nei diabetici non sottoposti a trapianti. In questo caso le difficoltà sono maggiori e i primi test sull'uomo non sono ancora iniziati: il problema principale è che non è stato ancora individuato un marcatore efficiente delle beta-cellule che sia possibile somministrare nell'uomo e sia allo stesso tempo selettivo per queste cellule, non tossico e visualizzabile attraverso metodi non invasivi. "Sono allo studio diverse sostanze - informa Piemonti - e verosimilmente entro tre, al massimo cinque anni nuovi marcatori ora in sperimentazione sugli animali potranno essere testati sull'uomo. Di particolare interesse sono alcuni reagenti prodotti dalle nanotecnologie che sembrano essere i candidati migliori per valutare la massa di beta-cellule nativa, non trapiantata. Le prospettive aperte da test di questo tipo - assicura - sono numerose e rilevanti. Se riuscissimo a 'dosare' la quantità di beta-cellule che producono insulina ancora attive nel pancreas potremmo conoscere meglio la storia naturale della malattia e conseguentemente fare una migliore prevenzione". "Nei pazienti ad alto rischio di diabete di tipo 1, ad esempio -spiega Piemonti - un test di valutazione della massa potrebbe aiutarci a individuare precocemente chi sta andando incontro alla malattia, consentendoci di applicare strategie preventive. E nei pazienti già diabetici potremmo valutare la presenza di massa beta-cellulare residua: sappiamo infatti che alcune beta-cellule sopravvivono anche nei pazienti con diabete di tipo 1, in una misura che può variare dal 5 al 30%. Se potessimo individuare i diabetici con la maggior riserva residua di beta-cellule potremmo identificare le terapie per stimolare la produzione di insulina'', conclude l'esperto.

Fonte: Adnkronos

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