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Vaccino anti-Alzheimer, al via i test su 30 pazienti italiani

Psichiatria | 21/05/2010 09:59

La missione è testare prima di tutto la sicurezza di un vaccino che promette di prevenire o rallentare la progressione dell'Alzheimer. Un gruppo di ricercatori italiani ha inaugurato, un paio di giorni fa, la sperimentazione di fase 2 sulla cosiddetta immunizzazione attiva per la 'malattia della memoria'. I pazienti coinvolti sono 30 e sono stati reclutati in due centri di Roma, tra cui la Fondazione Santa Lucia che coordina lo studio per l'Italia, nel centro Dino Ferrari di Milano, e in altri tre centri che si trovano a Firenze, Genova e Brescia. Si tratta di under 85 con una forma lieve di Alzheimer, perché il farmaco deve essere somministrato a uno stadio molto precoce della malattia per ottenere risultati significativi. Ad annunciare oggi nel capoluogo lombardo l'avvio della sperimentazione sono il direttore del centro Dino Ferrari (Dipartimento di scienze neurologiche dell'università degli Studi di Milano), Nereo Bresolin, e il responsabile del centro Alzheimer, Elio Scarpini. L'obiettivo del vaccino è quello di 'armare' il sistema immunitario contro la proteina amiloide, responsabile della formazione delle placche nel cervello che portano alla morte dei neuroni. "Con il farmaco che stiamo usando la risposta dell'organismo sembra essere ben calibrata - spiega Scarpini - Non è la prima volta che si percorre questa via contro l'Alzheimer, ma in passato i test con un altro vaccino simile erano stati interrotti perché il sistema immunitario aveva reagito in maniera eccessiva, attivando sia i linfociti B sia i linfociti T. L'azione di questi ultimi ha causato delle meningiti, di cui una mortale. Questa volta i risultati sono incoraggianti. Stiamo testando la sicurezza, la tollerabilità e la risposta anticorpale verso la proteina beta amiloide, ma le indicazioni che ci arrivano da un precedente studio di fase 1, condotto su un numero ancora più ristretto di pazienti, sono favorevoli e ci suggeriscono che il vaccino sia ben tollerato". Il meccanismo è quello classico del vaccino: si inietta intramuscolo la proteina in versione patologica e si stimola la formazione di anticorpi specifici che si legano alla proteina amiloide e ne favoriscono l'eliminazione attraverso le cellule 'spazzine' del sistema immunitario presenti nel cervello. L'effetto dell'immunizzazione attiva dovrebbe dunque agire rimuovendo le placche 'senili' alla base dell'Alzheimer.

La sperimentazione si conduce a livello internazionale, coinvolgerà 120 pazienti in tutto (solo a Milano ne saranno trattati 5) e durerà 90 settimane, poco meno di due anni. La procedura è quella di somministrare fino a 7 iniezioni di 'CAD106 con adiuvante' nell'arco temporale coperto dallo studio e di monitorare i pazienti con prelievi del liquido cerebrospinale per verificare l'efficacia, e risonanza magnetica per valutare l'atrofia cerebrale e la risposta anticorpale verso la proteina amiloide. La sperimentazione sarà condotta come uno studio multicentrico, randomizzato, in doppio cieco, contro placebo. Se i risultati saranno quelli sperati, prosegue Bresolin, "si procederà con uno studio allargato che coinvolgerà più pazienti", un numero superiore a 400. La strada è lunga, spiega, "ma non ci vorranno decenni".

Al momento "sono in corso studi sia sull'immunizzazione attiva che su quella passiva, basata sull'impiego di anticorpi monoclonali sempre per la proteina beta amiloide) in diversi centri italiani e del mondo". Nessuna sperimentazione è ancora arrivata alla fase 3 in cui si verifica su grandi numeri l'efficacia della terapia. Solo dopo questa fase si potrebbe aprire l'iter istituzionale per registrare la cura e mettere i farmaci in commercio, a disposizione dei pazienti. Il vaccino, avverte Scarpini, "dovrebbe essere una terapia preventiva e andrebbe somministrato in una fase iniziale della malattia. L'ideale sarebbe riuscire a 'immunizzare' i pazienti ancora prima che si sviluppino i danni alla
aspx">memoria. La malattia, infatti, comincia ad agire molto prima" e quando si palesa il 'deficit dei ricordi' "vuol dire che ormai si è esaurita la riserva cognitiva del malato. Siamo praticamente al 'punto di non ritorno', nel senso che la situazione è già grave e non migliorabile". Il problema che si pone è dunque quello di una diagnosi precoce, che ancora di fatto non esiste. Ma è necessario anche "approdare a una diagnosi differenziale - aggiunge Bresolin - che permetta di distinguere fra le varie demenze e di non commettere errori terapeutici". L'Alzheimer colpisce in Italia circa 600 mila persone, ma rappresenta il 50-60% di tutte le demenze che coinvolgono in tutto circa un milione di pazienti. "Ecco perché un altro fronte su cui la ricerca si sta muovendo è quello dell'identificazione di parametri radiologici, biochimici e genetici (per quel 5% di forme genetiche) che permettano di identificare tempestivamente la malattia", sottolinea Scarpini. Anche in questo caso le ricerche seguono più strade: alla Fondazione Santa Lucia di Roma si stanno concentrando sullo studio dell'ippocampo, il centro Dino Ferrari di Milano è al lavoro invece sul liquido cefalorachidiano "che è a contatto col cervello - spiega lo specialista - e viene prelevato attraverso la puntura lombare. Dall'analisi di questo 'liquor' si riesce a identificare le proteine responsabili della malattia, ma è una procedura un po' invasiva e, per ora, va riservata a casi specifici", conclude.
Fonte : Adnkronos
 

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