La Cassazione lo assolve perché il paziente va operato in condizioni di sicurezza
Aveva sospeso un delicato intervento chirurgico perché il secondo chirurgo non era in sala operatoria. La Cassazione (clicca qui per scaricare la sentenza) lo ha ritenuto indenne da qualsiasi responsabilità penale.
Il medico era stato accusato di rifiuto di atti d’ufficio, dopo che il dirigente aveva deciso di interrompere l’esecuzione di un delicato intervento di safenectomia su un paziente, perché in sala operatoria mancava il secondo chirurgo. La partecipazione di quest’ultimo era indispensabile a sua detta – vista la complessità dell’intervento - e le particolari condizioni fisiche del paziente ("a rischio per obesità").
L’imputato, nella qualità di dirigente medico presso la Divisione di chirurgia di un ospedale pubblico, "rifiutava indebitamente di portare a termine l’ intervento chirurgico di safenectomia destra sulla paziente, dopo averla già sottoposta alla prescritta procedura anestesiologica ed averle già praticato l’incisione cutanea e sottocutanea propedeutica all’asportazione della vena grande safena".
La ragione del rifiuto sarebbe stata la seguente: "si era al limite della copertura anestetica ed un dolore così intenso qual era quello che si prova intervenendo su una vena, avrebbe potuto provocare in un soggetto cardiopatico anche il decesso".
La pronuncia di assoluzione
Secondo la Cassazione quanto alla natura indebita del rifiuto, i giudici di merito omettono del tutto di considerare che tra queste ragioni vi è quella primaria e assolutamente cogente per la paziente di essere operata in condizioni di sicurezza. "E arbitrario – prosegue la Cassazione - è l'addebito formulato a riguardo dai giudici di merito al ricorrente di aver violato il dovere di attendere ancora l'intervento in sala operatoria del collega che, invece, secondo il protocollo operativo, doveva assicurare la sua presenza sin dall'inizio dell'intervento e che - da quanto risulta dalla stessa sentenza - dopo ancora venti minuti dal suo inizio, non si era presentato a prestare la sua dovuta collaborazione, essendo necessario evitare alla paziente una possibile emorragia".
"Inoltre – prosegue la Corte - gli stessi giudici affermano la ‘comprensibilità’ delle doglianze del ricorrente e la non immotivatezza del suo comportamento, a loro stesso dire, per essere stato ‘abbandonato’ in sala operatoria dai colleghi, ma relegano inopinatamente siffatto accertamento sinteticamente ribadito indicando il ‘quadro poco edificante del reparto’ all'eccentrico tema delle circostanze generiche, laddove - invece - si tratta della causa che ha determinato la condotta del ricorrente, rilevante ai fini della valutazione circa la sua natura indebita".
Secondo la Cassazione, la Corte di Appello non fa nessuna considerazione in ordine all'indifferibilità dell'atto rifiutato, della quale non c'è traccia alcuna perfino nella stessa contestazione e "rispetto alla incontestata natura elettiva dell'intervento chirurgico in ordine al quale nessuna urgenza è stata neanche prospettata e che, certamente, non si giustifica con il disagio della paziente per il successivo intervento".
L'assenza di giustificazione per entrambi gli elementi "la cui sussistenza è necessaria alla integrazione dell'elemento oggettivo del reato in contestazione - non essendo necessario alcun ulteriore accertamento di merito né versandosi in un emendabile vizio della motivazione - impone l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non sussiste".
In sostanza la Corte di cassazione ha ritenuto che quella del chirurgo accusato fosse una posizione di "valore" e non deprecabile, proprio a favore della salute della paziente, per cui ha deciso per il rinvio dell'intervento.
La Cassazione dà quindi rilievo al diritto del paziente di essere operato in condizioni di sicurezza e sposta l’analisi dal diniego (solo apparentemente illegittimo) del medico alla circostanza che - come lui stesso ha lamentato - era stato abbandonato da solo in sala operatoria per un intervento che va condotto per scienza medica da due chirurghi.
Sono ormai abbastanza numerosi, anche fra i medici e gli odontoiatri, i casi in cui, al momento della morte del professionista, il diritto alla pensione a superstiti venga attribuito ad un suo nipote, anche in presenza di genitori viventi.
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