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Il medico con doppio lavoro va licenziato: sentenza della Cassazione

Medlex Redazione DottNet | 07/09/2018 14:39

Il comportamento del professionista pur non essendo autorizzato era tollerato dal datore di lavoro

Il licenziamento del dipendente pubblico, nel caso un medico, per violazione del divieto di cumulo degli incarichi è legittimo anche in caso di tolleranza da parte del datore di lavoro nel reprimere il comportamento contrario ai doveri di ufficio. Lo stabilisce la recente sentenza della Cassazione Civile – Sez. Lavoro (del 21.08.2018 n.20880/2018). Il dirigente medico che aveva svolto, senza la preventiva autorizzazione del datore di lavoro, l’incarico di medico penitenziario per due anni, aveva percepito compensi annuali superiori a 100 mila euro.

La Suprema Corte conferma, nel caso di specie, scrive l'avvocato Fabrizio Cristadoro, rappresentato da un medico dipendente pubblico che aveva svolto anche attività lavorativa per istituti penitenziari (quindi doppio lavoro), la legittimità dell’irrogato licenziamento per giusta causa da parte del datore lavoro, disconoscendo il valore scriminante alla disposizione relativa all’attività medica (medici incaricati, esterni ai ruoli dell’amministrazione penitenziaria) svolta nei predetti istituti e prevista dall’art.

2 della L n.740/1970. Detta scriminante nasce dal carattere particolarmente gravoso e penoso dell’attività medica svolta nelle carceri e dalla natura parasubordinata della stessa non assimilabile in alcun modo al lavoro pubblico.

Il principio affermato dagli Ermellini è chiaro: "nel rapporto alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche l’inerzia nella repressione del comportamento contrario ai doveri di ufficio può solo rilevare eventualmente, quale causa di decadenza dell’esercizio dell’azione, ove comporti il mancato rispetto dei termini perentori imposti dal legislatore, ma non può mai fare sorgere un legittimo affidamento nella liceità della condotta vietata, perché il principio dell’affidamento incolpevole presuppone che il potere del datore sia discrezionale, di modo che l’inerzia possa essere interpretata dal lavoratore subordinato come rinuncia all’esercizio del potere medesimo e come valutazione in termini di liceità della condotta".

Il ragionamento posto in essere dalla Cassazione è incentrato sul principio che il dipendente pubblico è al "servizio della Nazione" e, pertanto, il suo comportamento deve essere ispirato ai doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico. Ciò comporta che la cosciente violazione di detti doveri da parte del medico (dipendente pubblico) non può essere giustificata dalla colpevole inerzia del datore di lavoro che lascia inalterata la rilevanza disciplinare della condotta, legittimando così il licenziamento per giusta causa. Inoltre, il medico aveva avanzato altri motivi di ricorso tutti rigettati dalla Corte di Cassazione anche quello relativo alla denunciata eccessività del recesso del datore di lavoro per giusta causa, essendo ben proporzionato alla violazione da parte del dipendente dell’obbligo di esclusiva.

In sostanza la riforma Brunetta (Dlgs. n. 150/2009) ha comportato un aggravio della posizione anche dei medici dipendenti pubblici che nel tempo avevano svolto il doppio lavoro.

Il caso del medico bolognese

Dal 2009 al 2013 ha lavorato come medico dell'emergenza territoriale dell'Ausl di Piacenza, pur essendo allo stesso tempo dipendente del Comune di Bologna. Con questo doppio lavoro, ha violato il dovere di esclusività e la Corte dei Conti dell'Emilia-Romagna, accogliendo la richiesta della Procura contabile, ha condannato un 65enne, G.R., al risarcimento di 323mila euro all'Azienda sanitaria piacentina, cioé i compensi ricevuti nel periodo in esame, e di 25mila euro al Comune di Bologna, per giornate di retribuzione non dovuta. Nei confronti del medico anche la Procura di Piacenza ha aperto un'indagine per truffa e falso ideologico.

Dipendente comunale a Bologna dal 1979 al 2013, dal 2000 era passato a un part time per fare il medico in libera professione. Dal 2009 ha avuto però un incarico annuale dall'Ausl, prorogato fino al 2012 e in questo periodo, per i giudici, ha intenzionalmente violato le norme sull'incompatibilità per i medici titolari di rapporti convenzionali col Servizio sanitario.

Nella sentenza della Corte (presidente Donato Maria Fino, consigliere relatore Massimo Chirieleison) si osserva infatti che nel momento in cui ha assunto l'incarico di medico dell'emergenza territoriale a Piacenza, ha omesso di dichiarare all'Ausl "la decisiva circostanza di essere nel contempo dipendente dell'amministrazione comunale". Dichiarando di non essere titolare di alcun rapporto di lavoro dipendente, avrebbe dissimulato "una condizione di incompatibilità assoluta che di per sé gli avrebbe precluso l'affidamento dell'incarico". La sua, dunque, è stata "una condotta fraudolenta protratta nel tempo" che ha indotto in errore l'Ausl e ha procurato al medico un ingiusto profitto. L'attività svolta "configura - sottolineano i giudici in un altro passaggio - un vero e proprio rapporto di lavoro pubblico, ancorché a tempo determinato, di natura convenzionale e a contenuto medico-professionale. Lo status di dipendente pubblico, ancorché a tempo parziale (18 ore settimanali, ndr)impediva all'interessato di instaurare un valido rapporto convenzionale con l'Ausl".

Oltre alle somme percepite dall'Ausl deve risarcire il Comune di Bologna perché dalle timbrature è emerso che "mentre prestava la propria attività professionale" a Piacenza, "risultava assente per motivi vari dal Comune di Bologna, con conseguente fruizione di retribuzione non dovuta". Le indagini sono state fatte dalla Guardia di Finanza.

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