Lo Scompenso Cardiaco (SC) è l’evoluzione clinica di molte cardiopatie: cardiopatia ischemica, cardiopatia ipertensiva, cardiopatia valvolare, miocardite e cardiomiopatia dilatativa primitiva. Esso è responsabile del 5-10% di tutte le ospedalizzazioni, costituendo la causa più frequente di ricovero per i pazienti oltre 65 anni. Inoltre, la mortalità annua nei soggetti con maggiore compromissione funzionale (classe NYHA III-IV, ovvero il 30% dei pazienti), è elevata: 24,8% per i pazienti in classe III e 36,7% per i pazienti in classe IV. L’incidenza dello SC aumenta negli anni, parallelamente all’aumento della vita media ed al miglioramento del trattamento delle varie forme di cardiopatie, e, nonostante l’ottimizzazione della terapia, molti pazienti rimangono fortemente sintomatici, con prognosi infausta, gravata da alta mortalità per scompenso refrattario o per morte improvvisa.
Lo SC rappresenta, pertanto, un importante capitolo della spesa sanitaria, da cui nasce l’esigenza di adottare delle strategie terapeutiche adeguate.
In tema di terapia medica, nella lunga stagione dei grandi trial clinici è andata consolidandosi un’evidenza che trova oggi sintesi in un modello di strategia farmacologica centrato sull’impiego di agenti in grado di contrastare la complessa disregolazione neurormonale che caratterizza la sindrome. Gli antagonisti del sistema renina-angiotensina-aldosterone (SRAA) – inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE-i), antagonisti recettoriali dell’aldosterone (ARA) bloccanti recettoriali dell’angiotensina II (ARB) – e quelli del sistema simpatico-adrenergico (SSA) – betabloccanti (BB) – sono a tutt’oggi gli unici farmaci per i quali esista una documentazione di efficacia, oltre che su sintomi, capacità funzionale, funzione ventricolare e ospedalizzazioni, anche sui maggiori endpoint di mortalità. Pertanto, essi vanno considerati i capisaldi dell’attuale trattamento farmacologico convenzionale dello SC. Inoltre, nonostante non sia mai stato chiaramente evidenziato un beneficio prognostico, continuano tuttavia ad essere raccomandati e ampiamente impiegati anche farmaci “storici” quali i diuretici e la digitale, i primi in virtù della loro unicità nel contrastare rapidamente ed efficacemente un meccanismo fisiopatologico chiave (ritenzione di acqua e sodio) per
l ’espressività clinica della sindrome (congestione polmonare e periferica), la seconda grazie alla sua capacità di migliorare significativamente la qualità di vita dei pazienti (riduzione dei sintomi e del rischio di ospedalizzazione).
Eppure, nonostante i favorevoli trend osservati anche nelle coorti di pazienti di più recente arruolamento, va riconosciuto che l’entità dei benefici clinici evidenziati nei trial randomizzati e controllati ha trovato riscontro solo parziale a livello di comunità, ove i tassi di mortalità e ospedalizzazione restano ancora inaccettabilmente elevati, sicuramente perchè l’applicazione di quanto suggerito dalle linee guida cliniche non trova il riscontro che dovrebbe essere atteso, come del resto è dimostrato anche dagli stessi studi osservazionali ANMCO degli ultimi anni (OSCUR, BRINGUP 1 e 2, TEMISTOCLE).
È su questo terreno che si è innestata la maggior parte delle attuali controversie sul trattamento farmacologico dello SC, alcune delle quali di carattere generale – coinvolgenti tutte le classi di farmaci sino ad oggi testate nello SC – rappresentando la ragione fondamentale della scarsa generalizzabilità delle linee guida a sottogruppi di pazienti ignorati dai grandi trial clinici. Infatti, metanalisi e subanalisi si sono moltiplicate per trovare conferma dell’efficacia e della tollerabilità dei vari trattamenti indipendentemente dalle caratteristiche demografiche e cliniche di base dei pazienti arruolati, ma, di fatto e con pochissime eccezioni, l’evidenza scientifica attualmente disponibile su questi argomenti, le cui implicazioni pratiche hanno un peso enorme dal momento che riguardano la maggioranza dei pazienti incontrati nella comunità, continua ad essere indiretta e parziale e dunque del tutto insufficiente per poter trarre definitive conclusioni.
Ma, oltre alla controversia più generale sulla reale e concreta applicabilità dei trial clinici nei pazienti che si incontrano nella pratica, di cui già si è detto, le controversie che meglio compendiano l’insieme delle contraddizioni che animano il dibattito sul trattamento farmacologico dello SC, sono fondamentalmente:
- la tripla terapia (ACE-i, BB e ARA o ARB), ovvero l’associazione di ACE-inibitori, betabloccanti e antagonisti dell’aldosterone o antagonisti recettoriali dell’angiotensina
- la quadrupla terapia, ovvero l’aggiunta alla tripla degli antialdosteronici
- la polifarmacologia del trattamento medico del paziente con SC
- le indicazioni all’utilizzo di device (ICD, RCT, da soli o in combinazione)
Per la tripla terapia in versione ACE-I + BB + ARB, dallo studio Val-HeFT, che aveva arruolato pazienti in trattamento con ACE-I (93%), BB (35%) e ARA (5%), è emerso un trend sfavorevole sulla sopravvivenza nel sottogruppo di pazienti che assumevano, contemporaneamente al valsartan, anche l’ACE-I e il BB. Anche lo studio ELITE II aveva fatto sorgere alcune perplessità concernenti un possibile effetto negativo del losartan quando somministrato a pazienti in trattamento con BB. Questi dati sono stati successivamente mitigati dai risultati, oltre che del VALIANT e dell’OPTIMAAL, anche da quelli dello studio CHARM – in cui il 56% dei pazienti era in trattamento con ACE-I, il 55% con BB e il 21% con ARA – il quale ha documentato un beneficio del candesartan anche nei pazienti trattati contemporaneamente con ACE-I e BB.
In sintesi, qualora la decisione sia quella di intraprendere la tripla terapia, il dato complessivo appare favorevole all’impiego della triade ACE-I + BB + ARA nei pazienti con SC moderatamente severo o severo (classe NYHA IIIb-IV) e in quelli a-paucisintomatici (classe NYHA I-II) con disfunzione postinfartuale; l’ARA va obbligatoriamente impiegato a basse dosi (spironolattone 12.5-25 mg/die, eplerenone 25-50 mg/die) ed esclusivamente nei casi con profilo di basso rischio (creatininemia <2.5 mg%, potassiemia <5.0 mmol/l). Viceversa, la triade ACE-I + BB + ARB è l’unica ad essere indicata nel sottogruppo di pazienti con SC di grado lieve non postinfartuale (classe NYHA II) e in quelli con SC moderato di qualunque eziologia (classe NYHA III). Anche per questa versione della tripla terapia è necessaria un’attenta stima preliminare del rischio di ipotensione/insufficienza renale/iperpotassiemia. Non vi sarebbero invece, allo stato attuale, documentazioni di efficacia della tripla terapia, in entrambe le sue versioni, nella disfunzione asintomatica non postinfartuale.
In pazienti con SC severo, persistentemente sintomatici nonostante ottimizzazione della terapia con ACE-I, BB e diuretico, di età avanzata e con comorbilità in grado di influenzare significativamente la prognosi, spesso diventa prevalente l’obiettivo di alleviare i sintomi ed evitare l’ospedalizzazione ricorrente per cui – soprattutto quando anche il profilo di funzionalità renale si presenta compromesso – la scelta dovrebbe essere a favore dell’impiego di un ARB. Al contrario, nei pazienti in classe NYHA III-IV – nei quali teoricamente possono sussistere indicazioni ad entrambe le versioni della tripla terapia – che, anche per l’assenza di comorbilità di rilievo, hanno una maggiore aspettativa di vita, è preferibile orientarsi sul beneficio dell’aggiunta di un ARA.
Ed ancora, e sempre sulla base di un’attenta valutazione del profilo di comorbilità dei pazienti, per valori di creatininemia compresi tra 1.5 e 2.5 mg%, specialmente se si tratta di pazienti anziani e/o con pregressi episodi di insufficienza renale o severa iperpotassiemia, l’opportunità di aggiungere l’ARA all’ACE-I e al BB andrebbe attentamente valutata. In questi casi può essere preso in considerazione il trattamento con un ARB, anche se in presenza di un profilo di funzione renale sfavorevole all’ARA, è probabile che si debba adottare la stessa cautela per l’ARB. Invece appare difficile negare la versione della tripla terapia che contempla l’ARB ai pazienti ipertesi e/o diabetici, specie se con concomitante nefropatia.
Per la quadrupla terapia, l’evidenza sull’efficacia e la sicurezza di impiego di ACE-I, BB, ARA e ARB in associazione è limitata ad un’analisi (dati statisticamente non significativi) condotta su un sottogruppo di 237 pazienti (dei 4576 totali) arruolati nel CHARM.
Le linee guida europee non fanno riferimento alla quadrupla terapia, per cui non vi sono elementi per stabilire se questo approccio terapeutico sia raccomandabile o meno.
Le linee guida americane sono invece chiare nel non raccomandare l’impiego combinato di ACE-I, ARA e ARB.
In attesa di un’evidenza scientifica più probante, la quadrupla terapia non può rappresentare un approccio raccomandabile di routine, ma solo una possibilità a cui far ricorso in casi estremamente selezionati. Il setting clinico più favorevole alla sua applicazione in termini di beneficio/ rischio potrebbe essere il sottogruppo di pazienti con ridotta FEVS e SC severo (classe NYHA IV) che – pur trattati in modo ottimale e stabilizzati con ACE-I, BB e ARA – restano fortemente sintomatici (classe NYHA II).
Altro aspetto su cui riflettere è il problema della polifarmacologia, particolarmente evidente nelle classi di età più avanzate. Di fatto, pressoché tutti i pazienti che sono potenziale obiettivo della tripla/quadrupla terapia sono in concomitante trattamento con diuretici (sempre) e digitale (spesso), i cui effetti – se da un lato sono di beneficio – dall’altro certamente contribuiscono a restringere i margini di tollerabilità emodinamica nei confronti degli agenti antagonisti neurormonali. Questo senza ovviamente considerare l’esigenza terapeutica delle patologie non cardiovascolari associate.
Infine, in tema di indicazioni ai device, attualmente è possibile avvalersi di un presidio non farmacologico, legittimato da studi controllati, costituito dalla Stimolazione Biventricolare / Resincronizzazione, CRT), il cui razionale è basato sulla dimostrazione che i disturbi della conduzione , frequentemente presenti nei pazienti con SC ( BAV di I grado e Blocco della Branca Sinistra), comportano effetti emodinamici negativi: perdita della sincronia atrio-ventricolare con perdita del contributo atriale al riempimento ventricolare, dissincronia di contrazione interventricolare ed intraventricolare sinistra che determinano incompleto riempimento diastolico del VS, riduzione del dP/dT, incremento dell’insufficienza mitralica, movimento paradosso del SIV.
Domenico Miceli
Specialista in Cardiologia
Responsabile U.O.Dipartimentale Cardiologia Riabilitativa post-acuzie AO Monaldi Napoli
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