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Scompenso cardiaco: la difficile ricerca dell'appropriato percorso terapeutico

Cardiologia Domenico Miceli | 05/01/2009 18:29

Lo Scompenso Cardiaco (SC) è l’evoluzione clinica di molte cardiopatie: cardiopatia ischemica, cardiopatia ipertensiva, cardiopatia valvolare, miocardite e cardiomiopatia dilatativa primitiva. Esso è responsabile del 5-10% di tutte le ospedalizzazioni, costituendo la causa più frequente di ricovero per i pazienti oltre 65 anni. Inoltre, la mortalità annua nei soggetti con maggiore compromissione funzionale (classe NYHA III-IV, ovvero il 30% dei pazienti), è elevata: 24,8% per i pazienti in classe III e 36,7% per i pazienti in classe IV. L’incidenza dello SC aumenta negli anni, parallelamente all’aumento della vita media ed al miglioramento del trattamento delle varie forme di cardiopatie, e, nonostante l’ottimizzazione della terapia, molti pazienti rimangono fortemente sintomatici, con prognosi infausta, gravata da alta mortalità per scompenso refrattario o per morte improvvisa.
Lo SC rappresenta, pertanto, un importante capitolo della spesa sanitaria, da cui nasce l’esigenza di adottare delle strategie terapeutiche adeguate.
 

In tema di terapia medica, nella lunga stagione dei grandi trial clinici è andata consolidandosi un’evidenza che trova oggi sintesi in un modello di strategia farmacologica centrato sull’impiego di agenti in grado di contrastare la complessa disregolazione neurormonale che caratterizza la sindrome. Gli antagonisti del sistema renina-angiotensina-aldosterone (SRAA) – inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE-i), antagonisti recettoriali dell’aldosterone (ARA) bloccanti recettoriali dell’angiotensina II (ARB) – e quelli del sistema simpatico-adrenergico (SSA) – betabloccanti (BB) – sono a tutt’oggi gli unici farmaci per i quali esista una documentazione di efficacia, oltre che su sintomi, capacità funzionale, funzione ventricolare e ospedalizzazioni, anche sui maggiori endpoint di mortalità. Pertanto, essi vanno considerati i capisaldi dell’attuale trattamento farmacologico convenzionale dello SC. Inoltre, nonostante non sia mai stato chiaramente evidenziato un beneficio prognostico, continuano tuttavia ad essere raccomandati e ampiamente impiegati anche farmaci “storici” quali i diuretici e la digitale, i primi in virtù della loro unicità nel contrastare rapidamente ed efficacemente un meccanismo fisiopatologico chiave (ritenzione di acqua e sodio) per
l ’espressività clinica della sindrome (congestione polmonare e periferica), la seconda grazie alla sua capacità di migliorare significativamente la qualità di vita dei pazienti (riduzione dei sintomi e del rischio di ospedalizzazione).
Eppure, nonostante i favorevoli trend osservati anche nelle coorti di pazienti di più recente arruolamento, va riconosciuto che l’entità dei benefici clinici evidenziati nei trial randomizzati e controllati ha trovato riscontro solo parziale a livello di comunità, ove i tassi di mortalità e ospedalizzazione restano ancora inaccettabilmente elevati, sicuramente perchè l’applicazione di quanto suggerito dalle linee guida cliniche non trova il riscontro che dovrebbe essere atteso, come del resto è dimostrato anche dagli stessi studi osservazionali ANMCO degli ultimi anni (OSCUR, BRINGUP 1 e 2, TEMISTOCLE).
È su questo terreno che si è innestata la maggior parte delle attuali controversie sul trattamento farmacologico dello SC, alcune delle quali di carattere generale – coinvolgenti tutte le classi di farmaci sino ad oggi testate nello SC – rappresentando la ragione fondamentale della scarsa generalizzabilità delle linee guida a sottogruppi di pazienti ignorati dai grandi trial clinici. Infatti, metanalisi e subanalisi si sono moltiplicate per trovare conferma dell’efficacia e della tollerabilità dei vari trattamenti indipendentemente dalle caratteristiche demografiche e cliniche di base dei pazienti arruolati, ma, di fatto e con pochissime eccezioni, l’evidenza scientifica attualmente disponibile su questi argomenti, le cui implicazioni pratiche hanno un peso enorme dal momento che riguardano la maggioranza dei pazienti incontrati nella comunità, continua ad essere indiretta e parziale e dunque del tutto insufficiente per poter trarre definitive conclusioni.
Ma, oltre alla controversia più generale sulla reale e concreta applicabilità dei trial clinici nei pazienti che si incontrano nella pratica, di cui già si è detto, le controversie che meglio compendiano l’insieme delle contraddizioni che animano il dibattito sul trattamento farmacologico dello SC, sono fondamentalmente:
- la tripla terapia (ACE-i, BB e ARA o ARB), ovvero l’associazione di ACE-inibitori, betabloccanti e antagonisti dell’aldosterone o antagonisti recettoriali dell’angiotensina
- la quadrupla terapia, ovvero l’aggiunta alla tripla degli antialdosteronici
- la polifarmacologia del trattamento medico del paziente con SC
- le indicazioni all’utilizzo di device (ICD, RCT, da soli o in combinazione)
Per la tripla terapia in versione ACE-I + BB + ARB, dallo studio Val-HeFT, che aveva arruolato pazienti in trattamento con ACE-I (93%), BB (35%) e ARA (5%), è emerso un trend sfavorevole sulla sopravvivenza nel sottogruppo di pazienti che assumevano, contemporaneamente al valsartan, anche l’ACE-I e il BB. Anche lo studio ELITE II aveva fatto sorgere alcune perplessità concernenti un possibile effetto negativo del losartan quando somministrato a pazienti in trattamento con BB. Questi dati sono stati successivamente mitigati dai risultati, oltre che del VALIANT e dell’OPTIMAAL, anche da quelli dello studio CHARM – in cui il 56% dei pazienti era in trattamento con ACE-I, il 55% con BB e il 21% con ARA – il quale ha documentato un beneficio del candesartan anche nei pazienti trattati contemporaneamente con ACE-I e BB.
In sintesi, qualora la decisione sia quella di intraprendere la tripla terapia, il dato complessivo appare favorevole all’impiego della triade ACE-I + BB + ARA nei pazienti con SC moderatamente severo o severo (classe NYHA IIIb-IV) e in quelli a-paucisintomatici (classe NYHA I-II) con disfunzione postinfartuale; l’ARA va obbligatoriamente impiegato a basse dosi (spironolattone 12.5-25 mg/die, eplerenone 25-50 mg/die) ed esclusivamente nei casi con profilo di basso rischio (creatininemia <2.5 mg%, potassiemia <5.0 mmol/l). Viceversa, la triade ACE-I + BB + ARB è l’unica ad essere indicata nel sottogruppo di pazienti con SC di grado lieve non postinfartuale (classe NYHA II) e in quelli con SC moderato di qualunque eziologia (classe NYHA III). Anche per questa versione della tripla terapia è necessaria un’attenta stima preliminare del rischio di ipotensione/insufficienza renale/iperpotassiemia. Non vi sarebbero invece, allo stato attuale, documentazioni di efficacia della tripla terapia, in entrambe le sue versioni, nella disfunzione asintomatica non postinfartuale.
In pazienti con SC severo, persistentemente sintomatici nonostante ottimizzazione della terapia con ACE-I, BB e diuretico, di età avanzata e con comorbilità in grado di influenzare significativamente la prognosi, spesso diventa prevalente l’obiettivo di alleviare i sintomi ed evitare l’ospedalizzazione ricorrente per cui – soprattutto quando anche il profilo di funzionalità renale si presenta compromesso – la scelta dovrebbe essere a favore dell’impiego di un ARB. Al contrario, nei pazienti in classe NYHA III-IV – nei quali teoricamente possono sussistere indicazioni ad entrambe le versioni della tripla terapia – che, anche per l’assenza di comorbilità di rilievo, hanno una maggiore aspettativa di vita, è preferibile orientarsi sul beneficio dell’aggiunta di un ARA.
Ed ancora, e sempre sulla base di un’attenta valutazione del profilo di comorbilità dei pazienti, per valori di creatininemia compresi tra 1.5 e 2.5 mg%, specialmente se si tratta di pazienti anziani e/o con pregressi episodi di insufficienza renale o severa iperpotassiemia, l’opportunità di aggiungere l’ARA all’ACE-I e al BB andrebbe attentamente valutata. In questi casi può essere preso in considerazione il trattamento con un ARB, anche se in presenza di un profilo di funzione renale sfavorevole all’ARA, è probabile che si debba adottare la stessa cautela per l’ARB. Invece appare difficile negare la versione della tripla terapia che contempla l’ARB ai pazienti ipertesi e/o diabetici, specie se con concomitante nefropatia.
Per la quadrupla terapia, l’evidenza sull’efficacia e la sicurezza di impiego di ACE-I, BB, ARA e ARB in associazione è limitata ad un’analisi (dati statisticamente non significativi) condotta su un sottogruppo di 237 pazienti (dei 4576 totali) arruolati nel CHARM.
Le linee guida europee non fanno riferimento alla quadrupla terapia, per cui non vi sono elementi per stabilire se questo approccio terapeutico sia raccomandabile o meno.
Le linee guida americane sono invece chiare nel non raccomandare l’impiego combinato di ACE-I, ARA e ARB.
In attesa di un’evidenza scientifica più probante, la quadrupla terapia non può rappresentare un approccio raccomandabile di routine, ma solo una possibilità a cui far ricorso in casi estremamente selezionati. Il setting clinico più favorevole alla sua applicazione in termini di beneficio/ rischio potrebbe essere il sottogruppo di pazienti con ridotta FEVS e SC severo (classe NYHA IV) che – pur trattati in modo ottimale e stabilizzati con ACE-I, BB e ARA – restano fortemente sintomatici (classe NYHA II).
Altro aspetto su cui riflettere è il problema della polifarmacologia, particolarmente evidente nelle classi di età più avanzate. Di fatto, pressoché tutti i pazienti che sono potenziale obiettivo della tripla/quadrupla terapia sono in concomitante trattamento con diuretici (sempre) e digitale (spesso), i cui effetti – se da un lato sono di beneficio – dall’altro certamente contribuiscono a restringere i margini di tollerabilità emodinamica nei confronti degli agenti antagonisti neurormonali. Questo senza ovviamente considerare l’esigenza terapeutica delle patologie non cardiovascolari associate.
Infine, in tema di indicazioni ai device, attualmente è possibile avvalersi di un presidio non farmacologico, legittimato da studi controllati, costituito dalla Stimolazione Biventricolare / Resincronizzazione, CRT), il cui razionale è basato sulla dimostrazione che i disturbi della conduzione , frequentemente presenti nei pazienti con SC ( BAV di I grado e Blocco della Branca Sinistra), comportano effetti emodinamici negativi: perdita della sincronia atrio-ventricolare con perdita del contributo atriale al riempimento ventricolare, dissincronia di contrazione interventricolare ed intraventricolare sinistra che determinano incompleto riempimento diastolico del VS, riduzione del dP/dT, incremento dell’insufficienza mitralica, movimento paradosso del SIV.

Tale dissincronia è frutto di un danno miocardico progressivo, globale o focale, con fibrosi interstiziale che sostituisce gradualmente il tessuto miocardio, determinando una propagazione eterogenea dell’attività elettrica con conseguenze meccaniche sull’efficienza contrattile del cuore.
L’obiettivo della CRT è dunque quello di ripristinare la sincronia atrio-ventricolare, la sincronia elettromeccanica del SIV, ridurre l’insufficienza mitralica telediastolica, ottimizzare la funzione diastolica e ridurre la discrepanza tra contrattilità miocardica e dispendio energetico.
In una metanalisi di studi controllati, la CRT ha dimostrato una riduzione delle ospedalizzazioni del 32% e la mortalità per tutte le cause del 25%, ovvero, in media, per ogni 9 Device impiantati si prevengono una morte e tre ospedalizzazioni, e tali risultati possono rendersi evidenti già dopo 3 mesi dall’impianto. La CRT, pertanto, ha dimostrato in pazienti in terapie medica ottimale e comprovata dissincronia ventricolare, una diminuzione dei sintomi, aumento di capacità di esercizio, qualità di vita, Frazione di Eiezione, sopravvivenza e diminuzione delle ospedalizzazioni.
Alla luce delle premesse fatte ed a quanto raccomandato nelle Linee Guida delle associazioni di Aritmologia, Italiana, Europea e Nord-Americana, l’indicazione ad impianto di sistema CRT si considera in Classe 1 per una sola categoria di pazienti, ovvero:
- scompenso Cardiaco gravemente sintomatico (Classe NYHA III-IV ambulatoriale) nonostante una terapia medica ottimale
- ridotta Frazione di Eiezione (FE ≤ 35%), determinata all’ecocardiogramma
- ritmo sinusale
- presenza di Dissincronia ventricolare, dimostrata all’ecocardiogramma
Di fatto, quello della dimostrazione della dissincronia ventricolare è considerato il punto centrale per l’indicazione, in grado di predire l’efficacia in cronico della CRT, ed anche il punto più controverso.
Peraltro, nelle linee guida, la dissincronia ventricolare viene definita in base alla sola durata del QRS, che deve essere > di 120 msec e a cui, in recenti studi, viene attribuito un sostanziale significato discriminante per l’individuazione di responder e non-responder .Tali Linee Guida prevedono anche, come indicazione in Classe 2, pazienti con durata del QRS < 120 msec ma con dimostrazione della dissincronia all’ecocardiogramma. La selezione ecocardiografica deve avvenire con parametri standard ad un primo filtro, e successivamente con l’ausilio delle nuove tecnologie (Doppler Tissutale, Strain bidimensionale , Velocity Vector Imaging) confermata da un ecocardiografista esperto. Il follow up ecocardiografico deve avvalersi di una stretta collaborazione con l’elettrofisiologo per ottimizzare parametri di attivazione tra gli atri e i ventricoli e tra i due ventricoli.
Sono da considerare, inoltre, indicazione in Classe 2, pazienti che differiscano per qualche aspetto da quelli in classe 1:
1) pazienti in fibrillazione atriale. Vi sono delle indicazioni favorevoli, specie in soggetti che siano stati sottoposti al programma di “Ablate & Pace”.
2) pazienti in classe funzionale NYHA II, che abbiano comunque indicazione alla stimolazione ventricolare e/o ICD profilattico. In tali pazienti la stimolazione dall’apice del ventricolo destro (determinando un’attivazione ventricolare a tipo BBS) potrebbe indurre o peggiorare uno stato di dissincronia ventricolare.
3) pazienti nei quali è già presente una stimolazione ventricolare destra e che siano in classe NYHA III-IV nonostante terapia e FE ≤ 35% (upgrade).
Per quanto concerne l’uso di apparecchi combinati ICD-CRT, questo deve basarsi essenzialmente sulle raccomandazioni all’impianto di ICD, sia per la prevenzione primaria che per la prevenzione secondaria. I due tipi di Apparecchi (CRT e ICD) sono da interpretare come due modalità di trattamento della stessa popolazione di pazienti, essenzialmente con ridotta FE del VS e compromissione funzionale, dove la presenza o meno di sintomi di scompenso può orientare verso l’uso di un ICD semplice oppure un apparecchio combinato. E’ verosimile che un apparecchio esclusivamente per la stimolazione atrio-biventricolare senza capacità di terapia antiaritmica, sia da riservare a pazienti estremamente selezionati, dove l’aspetto preponderante è rappresentato dal trattamento dei sintomi di scompenso piuttosto che la prevenzione della morte improvvisa.
In base alle considerazioni su esposte, specialmente ai fini della indicazione a CRT/AICD, si può prospettare l’iter diagnostico terapeutico dei pazienti con SC nel seguente modo:
1) Visita di Inquadramento.
• Raccolta anamnesi (Etiologia: Ischemica - non ischemica)
• Esami di Laboratorio (Dosaggio BNP, funzione tiroidea, Metabolismo glicidico, funzione renale, funzione epatica)
• Rx-Torace (PA e LL).
• ECG e PA
• Ecocardiogramma con valutazione del dissincronismo al DTI
• Verifica terapia
2) Esami successivi
• Coronarografia
• Holter (HRV, Aritmie)
• Test Cardio-Polmonare
3) Ottimizzazione della terapia
- Farmaci di uso routinario
• ACE- inibitori
• Diuretici
• ?-bloccanti
- Farmaci in pazienti selezionati
• ARA
• ARB
• Digitale
• nitrati
4) Follow Up (almeno 3-6 mesi)
• Ottimizzazione della terapia
5) Rivalutazione
• Classe NYHA
• Ecocardiogramma con valutazione dei ritardi di conduzione al DTI
6) Nei pazienti con classe NYHA II-IV, FE ≤ 35% e ritardi meccanici dimostrati
• AICD con Stimolazione biventricolare (sopravvivenza e sintomi)
• Stimolazione biventricolare (senza AICD) (sintomi)
7) Nei pazienti con classe NYHA II-III, FE ≤ 30% e senza ritardi meccanici
• AICD
Per l’indicazione più specifica al solo ICD, nel decennio scorso numerosi studi ne hanno dimostrato la capacità di ridurre la mortalità totale e improvvisa nei pazienti ad alto rischio di arresto cardiaco tachiaritmico sia quando utilizzato in prevenzione secondaria sia in prevenzione primaria, in soggetti accuratamente selezionati. Tre ampi studi (MADIT-II, COMPANION e SCD-HeFT) ne hanno dimostrato l’efficacia in prevenzione primaria anche in pazienti selezionati solo sulla base della presenza di grave disfunzione ventricolare sinistra. L’orientamento delle attuali linee guida internazionali e nazionali è di porre indicazione all’impianto di un ICD nei pazienti con cardiopatia e frazione di eiezione ventricolare sinistra (FEVS) =30%, almeno 40 giorni dopo un infarto miocardico (IM) acuto e di considerare “ragionevole” l’indicazione all’impianto anche nei pazienti con FEVS compresa tra 31 e 36.La stretta aderenza a tali indicazioni, modificando in modo sostanziale il tradizionale approccio terapeutico basato su una stratificazione preliminare con combinazioni di test non invasivi e/o invasivi, ha creato forti divergenze di opinione tra gli addetti ai lavori e ha fatto emergere tre importanti ordini di problemi: 1) clinici (espansione delle indicazioni, abbandono di una consolidata esperienza di stratificazione prognostica a favore di un mezzo di selezione poco specifico), 2) etici (a discapito di una modesta riduzione assoluta della mortalità, impianto di apparecchi sofisticati, costosi, spesso inutilizzati o gravati da un’elevata frequenza di effetti indesiderati), e 3) economici (incremento esplosivo delle spese sanitarie).
In definitiva, la terapia con ICD per la prevenzione primaria della morte improvvisa nei pazienti con grave disfunzione ventricolare sinistra non dovrebbe essere estesa a tutta la popolazione con FEVS =35%. Dato per scontato che l’impianto di un ICD va evitato quando il paziente, in grado di intendere e ampiamente informato, rifiuta l’intervento: 1) l’applicazione di un ICD potrebbe essere evitata nei pazienti: a) con rischio di MI o arresto cardiaco <2- 3%/anno o identificabili a basso rischio con un potere predittivo negativo >96%; b) di età >80 anni (ad eccezione di quelli con un’aspettativa di vita >2-3 anni); c) con FEVS <20% e/o in classe funzionale NYHA III/IV-IV nonostante terapia medica piena e senza criteri per porre indicazione alla CRT; d) con cardiomiopatia dilatativa idiopatica in cui la FEVS dopo terapia appropriata (in particolare dopo terapia betabloccante) migliora in modo significativo; e) con cardiopatia ischemica e FEVS >30% in assenza di inducibilità di tachiaritmie ventricolari sostenute; 2) l’indicazione all’applicazione di un ICD dovrebbe essere posta con cautela nei pazienti di età >75 anni e significativa comorbilità che faccia prevedere un elevato rischio di morte entro 2-3 anni, nonostante la terapia con ICD; 3) l’impianto di un ICD dovrebbe essere indicato nei pazienti con recente IM identificati ad alto rischio di eventi aritmici maggiori. Per i pazienti appartenenti ai primi due gruppi un’alternativa all’impianto di un ICD potrebbe essere preferito l’uso, se possibile, di amiodarone, eventualmente in combinazione con betabloccanti.
In conclusione, la ricerca dell’approccio terapeutico più appropriato per il paziente con SC è attualmente difficile per il sommarsi di problematiche sia di natura terapeutica, legata all’ampio spettro di presidi farmacologici di cui disponiamo e alla loro combinazione/interazione, sia alla necessaria ricerca dell’appropriata indicazione all’uso di dispositivi intracardiaci.
Purtroppo queste problematiche, sebbene oggetto di discussione e controversie ormai da numerosi anni, continuano a rimanere irrisolte e ad essere causa di incertezza sul modo migliore di agire nel singolo paziente.

Domenico Miceli
Specialista in Cardiologia
Responsabile U.O.Dipartimentale Cardiologia Riabilitativa post-acuzie AO Monaldi Napoli

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