Che i diamanti siano antichi quanto il mondo è un fatto, ma il sogno e le possibilità tecniche di sintesi dei diamanti e dei nanodiamanti iniziano negli ultimi anni del 1800 in Europa. La messa a punto, l’affinamento, la diversificazione delle tecniche produttive coinvolgeranno massicciamente Russi, Statunitensi, Giapponesi e permetteranno, in meno di un secolo, attraverso un cammino intricato di date, tecniche e luoghi, la commercializzazione sia di diamanti ad uso gemmologico che nanodiamanti utili ad una vasta gamma di raffinate e delicate applicazioni tecnologiche moderne.
La storia dei nanodiamanti, o meglio la storia dei diamanti sintetici inizia nel 1800 con i lavori di Henri Moissan (1) e prosegue con Sir Charles Algernon Parsons.
Chi erano costoro? Ferdinand Frédéric Henri Moissan [Fig. 1] fu un chimico francese nato il 28 settembre del 1852 a Parigi ove morì improvvisamente, a soli 54 anni, il 20 febbraio del 1907. Di umili origini ebree, figlio di un impiegato delle Ferrovie dell’Est e di una sarta, manifestò già a quindici anni un forte interesse per la chimica. Sin dall’inizio della sua attività scientifica, con il Carbonio ebbe a che fare. Presentò infatti, in collaborazione con il suo maestro Pierre Paul Dehèrain, all’Accademia delle Scienze francese, una memoria sull’emissione di anidride carbonica in relazione all’assorbimento di ossigeno delle foglie di piante, tenute al buio, apparsa nel 1874. Gli interessi scientifici di Moissan erano però rivolti alla chimica inorganica e più specificamente alla chimica degli ossidi di metalli del gruppo del ferro. Nel 1884 cominciò ad occuparsi della chimica del fluoro, che per primo riuscì ad isolare nel 1886. Dai suoi molteplici filoni di ricerca condotti in un periodo della vita in cui per potersi mantenere era costretto ad impartire lezioni privatamente (una mente geniale che campava dando ripetizioni…) e dalle minute osservazioni effettuate durante gli esperimenti condotti, non tutti di successo, nacque l’idea che il fluoro potesse consentire la trasformazione del carbonio amorfo in carbonio cristallino. Dunque il fluoro avrebbe potuto consentire la sintesi di diamanti, che sarebbero stati di piccolissime dimensioni e si sarebbero potuti osservare solamente al microscopio.
Ai medici il nome Moissant dice poco forse, ma ricordiamo qui che fu, nel 1906, premio Nobel per la chimica (1) che proprio per l’isolamento del fluoro gli fu assegnato. Interrompiamo un momento la storia per una precisazione. Il minuscolo diamante visto da Moissan nel frammento di meteorite a sua disposizione, non era in realtà un diamante, ma un’inclusione di carburo di silicio (SiC, Fig. 2) di natura meteorica, cioè di moissanite [Fig. 3]. Assai rara in natura ha, rispetto al
diamante, un indice di rifrazione di poco superiore (2.65/2.69), un peso specifico un po’ inferiore (3.22), un’alta dispersività, un maggiore resistenza (difficile la sfaldatura ottaedrica, ma relativa debolezza secondo alcuni piani cristallografici) e minor durezza (9.25 nella scala scala Mohs).
Quella sintetica, parliamo ancora di moissanite, fu casualmente sintetizzata e scoperta da Edward Goodrich Acheson [Fig. 4], chimico statunitense (9/3/1856-6/7/1931, collaboratore di Thomas Alva Edison) nel 1893 che, anche lui, cercava di produrre diamanti di sintesi. Acheson la chiamò ‘CARBORUNDUM’.
Fu George Frederic Kunz (29/9/1896-29/6-1932) un mineralogista statunitense e collezionista di minerali [Fig. 5], che nel 1905 diede al carburo di Silicio il nome ufficiale di Moissanite, visto che quella naturale era stata scoperta proprio da Moissan.
Nel tentativo di sintetizzare diamanti Moissan ebbe un collega scozzese, James Ballantyne Hannay. Poco si sa di questo chimico autodidatta, se non che nacque a Glasgow l’1 gennaio del 1855 e che morì in un ospedale psichiatrico di Glasgow nel marzo del 1931. Sicuramente Hannay non amava lo studio che lasciò a 14 anni per seguire la professione del padre proprietario del Grand Theatre di Glasgow, ma i libri di chimica lasciatigli da un amico di famiglia furono sufficienti ad appassionarlo, tanto che si costruì un laboratorio in casa. Nel 1872 entrò nella Chemical Society per la quale pubblicò una serie di lavori sulla chimica analitica. Anche nel suo caso i suoi interessi furono molteplici: dai derivati degli alogeni alla termodinamica ed altro ancora, diamanti inclusi (3).
James Ballantyne Hannay [Fig. 5] sembra sia riuscito, a suo rischio e pericolo (i tubi di ferro che usava scoppiarono circa una trentina di volte) a sintetizzare anche un diamante blu di tipo B.
Neppure nel suo caso fu possibile ottenere nuovamente i suoi risultati sperimentali però dall’esame dei campioni conservati presso il British Museum sembra fossero realmente diamanti (4) essendo costituiti per il 97,85% di carbonio (5).
Altri, e qui riprendiamo il filo del discorso interrotto, cercarono di ripetere le esperienze di Moissan e di Hannay, ma senza successo. Il tentativo sembrò però riuscire a Parsons.
Altra figura importante nel tentativo di sintesi dei diamanti, fu infatti Sir Charles Algernon Parsons (13/6/1854-11/2/1931). Parsons fu un ingegnere anglo-irlandese figlio di un Lord, William Parsons, terzo Earl di Rosse, il cui telescopio ‘Leviathan’, fu sino all’inizio del XX secolo il più grande del mondo (William era un astronomo).
Charles Algernon Parsons è famoso per aver inventato la turbina a vapore. Anche lui, analogamente a Moissan aveva molteplici interessi e parte della sua sperimentazione riguardava la possibilità di produrre forme dense di carbonio a lunga durata, utilizzabili ad esempio nelle lampade ad arco. Di fatto nel suo lavoro pubblicato nel Philosophical Magazine del settembre del 1883 scrive: ‘…under certain conditions of temperature, pressure, and substance in contact with carbon, hard particles resembling a diamond were produced, which satisfied all the tests for diamond, so far as they could be applied to particles under 1/500 inch in length.
At the time of reading the paper a few tests only had been applied to ascertain whether the particles found were veritable diamonds. Shortly after, however, they were examined by Professor Crookes (*2) with electrical discharge in high vacua, and appeared to him to behave in a similar manner to diamond powder’ (6)
Sembrerebbe però che né Moissan (forse; le condizioni fisiche di base c’erano, ma non abbiamo più il suo materiale sperimentale), né Parsons (per sua stessa ammissione) abbiano realmente sintetizzato diamanti (7), ma abbiano anzi prodotto spinelli sintetici (*3). Gli spinelli sono un’ampia famiglia di minerali costituiti da alluminio, magnesio e ossigeno (MgAl2O4 cioè alluminato di magnesio), ma in cui è possibile la presenza di altri elementi chimici (Fe, Ni, Ti, Zn, Cu etc. variamente combinati). Fu lo stesso Parson a ritirare i propri lavori ritenendo di aver sintetizzato, per l’appunto, spinelli, non diamanti (7).
Il principio di produrre diamanti sintetici utilizzando temperature e pressioni molto elevate, era comunque ormai stabilito, ma si dovettero attendere ancora parecchi anni prima che la sintesi fosse possibile in quantità adeguate prima e in qualità poi.
La storia dei nanodiamanti è una storia di fatto abbastanza complessa con radici differenti nei vari paesi del mondo ed uno sviluppo dal percorso particolarmente intricato soprattutto in relazione al progresso delle tecniche inventate ed utilizzate.
Per fare, per quanto possibile chiarezza e riassumere semplicemente, seppur in modo un po’ grossolano, la storia, diciamo che la radice originaria è posta nell’Europa di fine ‘800 (Francia con Moissan, Scozia con Hannay) e prosegue, in parallelo, negli anni ’50 in Svezia e negli Stati Uniti d’America. Questa prima linea di sviluppo utilizza metodi di sintesi ad alta pressione e ad alta temperatura (HPHT) già proposti da Moissan. Durante gli inizi degli anni ’60 i Sovietici scoprono, ed è una scoperta indipendente, i nanodiamanti nei prodotti di detonazione degli esplosivi, ne perfezionano le tecniche di produzione, rendendone possibile uso e commercializzazione, per passare poi dalla detonazione ai metodi HPHT. Negli USA alla fine degli anni ’60 viene brevettato un nuovo metodo di produzione basato sulla Chemical Vapor deposition (CVD). Negli anni ’80 i perfezionamenti tecnici subiscono un’accelerazione determinata dall’ingresso, nella storia dei nanodiamanti, dei ricercatori giapponesi che per l’appunto perfezionano, migliorano e modificano le tecniche CDV. Le ricerche, la messa a punto di nuove tecniche anche variamente combinate, continua naturalmente ancora oggi senza interruzione.
Detto ciò, ricordiamo che nel 1953 in Svezia e contemporaneamente negli USA venne applicato il metodo HPHT (High Pressure High Temperature; 60kbar di pressione e 1550°C di temperatura rispettivamente). Negli Stati Uniti il metodo fu sviluppato dalla General Electric Company, comunemente indicata come GE e del team che aveva lavorato al progetto fece parte Howard Tracy Hall un chimico fisico americano che ridisegnò la pressa indispensabile al processo di sintesi. Tracy Hall abbandonò la GE nel 1955 con un miserando bond di 10 (dieci) dollari, pare. La sua invenzione, riconosciuta, ottenne il brevetto US Patent n° 2.947.608 il 2 agosto del 1960 a cinque anni dalla presentazione. Il brevetto fu assegnato alla GE.
Quanto all’ASEA (Allmänna Svenska Elektriska Aktiebolaget) era anch’essa una società di produzione elettrica svedese che già nel 1949 aveva dato avvio ad un progetto segreto (QUINTUS, nome in codice) per la produzione di diamanti sintetici. L’apparato di produzione, mai brevettato, fu progettato da Baltzar von Platen (*4) un ingegnere svedese [Fig. 7] e Anders Kämpe (*5) e lo staff era composto da cinque persone. Il progetto venne reso pubblico solo nel 1980. La sintesi del diamante fu ottenuta nel 1953.
Il metodo HPHT oltre che essere costoso, non produce diamanti sintetici di alta qualità, dunque non particolarmente adatti ad usi quali ad es. quelli gemmologici, tuttavia le stime del fabbisogno in diamanti sintetici a scopi industriali meno belli, ma sicuramente assai più utili, valutato attorno ai 60 bilioni di dollari, li rendeva comunque interessanti ed estremamente attraenti da un punto di vista puramente economico. La De Beers stessa che ha sino alla fine degli anni ’90 mantenne praticamente l’esclusiva del commercio mondiale dei diamanti naturali, specie sudafricani, si cimentò nella produzione di diamanti sintetici. Fu nel 1990 che ne produsse uno di 14,2 carati (8) e due anni dopo, nel 1992, ne sintetizzò un altro di 34,8 carati (9). Non proprio per diletto è ovvio, ma per necessità legate ai cambiamenti politici nei paesi da cui si approvvigionava, alla pubblicità data alla scandalosa ‘blood diamond trade’, all’emergenza di agguerrite compagnie concorrenti che se i diamanti veri non potevano acquistarli e commercializzarli, potevano però, produrne per sintesi non solo identici a quelli naturali, ma assai meno costosi (10), con prezzi del 70% inferiori. Le motivazioni erano palesemente legate ad almeno due fondamentali elementi: il primo la perdita del monopolio (la compagnia controllava il 45% della produzione, ma nelle sue mani era l’80% del commercio mondiale), il secondo la certezza di essere comunque, anche con i diamanti di sintesi (o coltivati, come alcuni amano chiamarli), alle soglie di un gigantesco affare commerciale. Se i neonati concorrenti (Gemesis ed Apollo) potevano produrre piccoli diamanti sintetici di ottima qualità (sino a 3,5 carati la Gemesis Corporation) perché non la De Beers? Oggi la De Beers è la più grande compagnia mineraria privata dedita all’estrazione di diamanti, ma non da sola, perché parte (?) di un consorzio di cui fanno parte la famiglia Oppenheimer, l’Anglo American Plc e la Debswana Diamond Co, (Pty) Ltd. Non è solo un interesse ‘da gioielleria’ perché il raggio di azione del consorzio riguarda anche la produzione di supermateriali: sostanzialmente nanodiamanti sintetici (attraverso la Element Six o E6 fondata da Ernest Oppenheimer nel 1946) che a tutto possono servire tranne che a fabbricare gioielli.
E’ ovvio che sia la Gemesis che la Apollo, le due piccole (rispetto alla De Beers) compagnie statunitensi sarebbero già state in grado, una volta avviate le attività produttive, di danneggiare il colosso mondiale dei diamanti.
E’ vero che la Apollo entrò nell’arena solo nel 1990 (Bloomberg), ma entrò ufficialmente nella storia dei diamanti sintetici con il metodo CVD (Chemical Vapor Deposition) brevettato da Robert Linares, il co-fondatore per l’appunto dell’Apollo Diamond Inc. di Boston (Massachusetts); i diamanti prodotti con questo metodo sono perfetti, non hanno difetti, tanto che Jef Van Royen del Diamond High Council di Anversa fu costretto ad ammettere che il diamante di sintesi era tale e riconoscibile solamente perché la sua struttura era troppo perfetta e, in natura, i diamanti hanno sempre qualche difetto (11). Con la stessa tecnica avendo la pazienza di aspettare poche settimane è anche possibile ottenere gemme di dimensioni di tutto rispetto anche per un gioielliere. Oggi anziché l’Apollo, che cominciò ad offrire al pubblico i suoi diamanti nel 2007 (12), troviamo la SCIO Diamond Technology Corporation, che ne prosegue l’opera e che ha forti interessi nell’uso dei diamanti come semiconduttori, analogamente a quanti ne aveva Robert Linares che aveva iniziato la sua carriera scientifica ai Laboratory Bell prima ed alla Perkin Elmer poi, studiando semiconduttori avanzati, basati su singoli cristalli. La parola semiconduttori spiega in parte la segretezza mantenuta per anni da Linares sul suo lavoro (gli occorsero una decina e più di anni per ottenere buoni risultati) e sulla collocazione dei propri laboratori, tanto che Boser che riuscì ad intervistarlo e a visitarne i laboratori dovette mettere per iscritto e firmare l’impegno di mantenere segreto ciò di cui era venuto a conoscenza (13). Il rischio che la Apollo temeva era l’incontro con spie prezzolate della De Beers.
Il mistero e la segretezza attorno alla compagnia, in grado di produrre diamanti anche di 25 carati (se ci soffermiamo solo sull’aspetto più eclatante della produzione), continua ancora oggi (14)
Quanto alla Gemesis la sua storia è piuttosto interessante per le relazioni con il mondo tecnico-scientifico dell’URSS. La Gemesis fu fondata nel 1996 a Sarasota in Florida, da Carter Clarke un generale in pensione che aveva partecipato alla guerra in Corea ed in Vietnam. Il Generale era in pensione si, ma non era inattivo e lavorava per la Security Tag System (St. Petersburg, Florida) oggi sussidiaria della Sensomatic Electronic Corporation. La Security Tag System era particolarmente interessata a quelli che sono gli odierni e diffusi sistemi antitaccheggio. Anche i Russi avevano gli stessi interessi e attraverso l’High Technology Bureau si occupavano della vendita di tecnologia militare all’Occidente. Nel Bureau era in carica Yuriy Semenov. Quando Clarke e Semenov si incontrarono, a Mosca, il l’ex Generale statunitense si sentì chiedere se non avesse interesse nel far crescere diamanti. La tecnologia sovietica era poco costosa (57.000 dollari per macchina) e si potevano produrre diamanti di 3 carati in pochi giorni. Una cianografia era pronta per mostrare all’eventuale acquirente lo schema tecnico della macchina. Ovviamente quello non era stato lo scopo del viaggio di Clarke, ma l’idea era ormai seminata e stava pian piano germogliando. Tre mesi furono sufficienti a far sì che Clarke volasse di nuovo a Mosca e questa volta fu Nikolai Polushin a mostragli la vera macchina, trarne un piccolo cubo di ceramica, romperlo ed estrarne un piccolo diamante. Era fatta! Clarke ordinò tre macchine (presse BARS, Fig. 8) che portò in Florida insieme ad uno staff di Russi in grado di far funzionare le apparecchiature, le quali peraltro non sempre producevano diamanti.
Fu un esperto in cristalli iraniano, Reza Abbaschian (Ph.D. in Materials Science and Engineering conseguito presso l’University of California, Berkeley nel 1971) a risolvere i problemi computerizzando il controllo delle presse che richiedevano il bilanciamento corretto di ben 200 parametri. Il metodo di produzione usato era ed è quello HPHT, in modo da poter produrre sia diamanti colorati che perfettamente privi di colore (15). Oggi la Gemesis ha chiuso gli stabilimenti in Florida e ne ha aperti in Malesia ove produce diamanti usando la tecnica HPHT ed a Singapore ove usa la tecnica CVD e non si limita più alla gioielleria, ma alle altre applicazioni tecnologiche ed industriali dei nanodiamanti, tanto che la segretezza è un elemento, che è comparso nella politica della compagnia (16).
L’Unione Sovietica di fatto i diamanti, e con essi i minuscoli nanodiamanti, li aveva sintetizzati e scoperti da molto tempo. Il primo impianto pilota fu aperto nel 1980 (17), i primi nanodiamanti però vennero prodotti addirittura nel 1963. Furono studiati sino al 1982, poi dopo periodo di oblio, dal 1982 al 1993 gli studi ripresero nuovo impulso determinando un incremento della potenziale produzione tale da superare le possibilità di applicazione. Dal 1993 al 2003 la produzione continuò, ma in quantità estremamente ridotte tanto da determinare la chiusura di numerosi centri di ricerca e l’arresto della produzione. Certamente i nanodiamanti prodotti con il metodo della detonazione erano adatti solo a scopi industriali, ma avevano proprietà rivoluzionarie, per allora già utili ad esempio nella lubrificazione o nella produzione di rivestimenti.
Almeno tre furono i principali gruppi scopritori dei nanodiamanti e si trattava, vale la pena di dirlo, di gruppi indipendenti a ciascuno dei quali va oggettivamente il merito della scoperta.
Il primo gruppo lavorava al VNIITF di Snezhinsk (sino al 1993 città segreta nota anche come Chelyabinsk-70, in cui si studiavano programmi nucleari) e vi facevano parte K.V. Volkov, V.V. Danilenko e V. I. Elina. La loro scoperta risale al 1962.
Il secondo gruppo, a cui appartenevano A. M. Staver ed A. I. Lyamkyn, che operava all’Istituto di Idrodinamica, nella divisione siberiana dell’Accademia delle Scienze a Novosibirsk (URSS), li scoprì nel 1982.
Il terzo gruppo infine fu quello di G.I. Savvakin dell’Istituto dei Problemi delle Scienze dei Materiali dell’Accademia delle Scienze di Kiev (UkRRS) (18) che li scoprì nello stesso anno (1982).
In tutti i casi la produzione riguardava nanodiamanti ultradispersi (UDD o DND) ottenuti per detonazione (DND). Negli USA questo tipo di produzione potè essere dimostrata solo nel 1988. I nanodiamanti prodotti avevano dimensioni comprese fra i 4 ed i 7 nanometri (19). Le tecniche di produzione che utilizzavano i metodi HPHT erano sostanzialmente metodi che ricreavano le condizioni secondo cui i processi naturali avevano permesso la formazione dei diamanti; a questo tipo di tecnologiaappartengono le presse BARS con una camera di sintesi cilindrica di 2 cm3 contenuta in una struttura cubica. Oggi tra i vari tipi di presse utilizzate oltre alle BARS, inventatetra il 1989 ed il 1991 da I. J. Malinovsky ed altri scienziati dell’Istituto di Geologia e Geofisica, ramo siberiano dell’Accademia delle Scienze dell’URSS(20), esistono anche presse a cintura (la prima fu quella di Tracy Hall della General Electric, con cella di sintesi cilindrica) e presse cubiche, successive alle presse tetraedriche multiassiali (con incudini che convergono delimitando uno spazio tetraedrico). Le capsule di sintesi, contenenti carbonio sono in grafite che verrà cristallizzata in diamante. Prima che il metodo di produzione con HPHT fosse messo pienamente a punto, ed era un metodo piuttosto costoso, risultati utili ad una produzione commercializzabile furono ottenuti grazie alla sintesi per detonazione dalla quale potevano essere ottenuti diamanti delle dimensioni di circa 5 nanometri. Per la verità anche Paul De Carli (*6) [Fig. 9], già nel 1959, si era accorto che la grafite per shock da esplosione permetteva la produzione di nanodiamanti di dimensioni inferiori ai 10 mm (21), ma allora l’inatteso risultato sperimentale sembrò controverso e solo nel 1961 venne confermato (22).
In ambo i casi, sia che si usi la detonazione che l’HPHT, le alte pressioni sono indispensabili per la sintesi dei diamanti.
Una tecnica di sintesi che invece non prevede elevati valori di pressione è la CVD (Chemical Vapour Deposition). La tecnica consente di produrre materiali solidi ad alto grado di purezza su un substrato noto come wafer posto in una camera di reazione.
Il wafer è esposto a precursori volatili che si decompongono e/o con esso reagiscono formandovi dei depositi. I sottoprodotti delle reazioni sono rimossi dalla camera di reazione dal gas che in essa fluisce. La pressione è molto bassa, addirittura inferiore alla pressione atmosferica a livello del mare che, come ben sappiamo, è di 760 Torr; si possono raggiungere, usando questa tecnica, al massimo i 203 Torr, (203 mm di Hg). Nel caso dei diamanti nella camera di reazione scorrono gas come metano, acetilene, anidride carbonica, tutti utili come donatori di Carbonio. La tecnica è per la verità antica e già Bunsen (*7) nel 1852 ne aveva osservato gli effetti e Saint-Claire Deville (*8). la utilizzò nel suo laboratorio per produrre ‘minerali artificiali’. Il nome attuale CVD le venne dato da John M. Blocher nel 1960 al 118° Meeting ECS a Houston, Texas (23).
In parole semplici questa tecnica consente la deposizione di atomi di carbonio provenienti da gas che fungano da precursori e perciò stesso contengono carbonio, su wafer che siano di natura cristallina (diamanti naturali o sintetici) o di altra natura nel qual caso è utile l’aggiunta di ‘semi’ di diamanti che forniscano la sede d’avvio del processo di nucleazione del cristallo di carbonio. Nel primo caso la crescita sarà omoepitassiale con formazioni monocristalline, nel secondo la crescita avverrà in modo eteroepitassiale con formazioni policristalline. Dalla coalescenza, cioè dall’unione di questi centri di cristallizzazione sarà possibile ottenere dei film di diamanti. La nucleazione del carbonio sul wafer avverrà con l’abbassamento della temperatura (comunque elevata) dei gas che lasceranno ‘cadere’ sul supporto gli atomi di carbonio. In pratica oltre ad una sorgente di calore che permette il riscaldamento dei gas usati serve un’altra zona più fredda in cui possa iniziare la nucleazione dei cristalli. E’ anche possibile seguendo lo stesso schema vaporizzare del materiale (solitamente metalli) ad alta temperatura, sotto vuoto, e farlo poi cristallizzare con lo stesso sistema. Ovviamente nella fase gassosa sarà possibile aggiungere anche ciò che sia ritenuto utile al dopaggio del materiale che si vuole ottenere: se usassimo la tecnica in elettronica potrebbe essere utile drogare i wafer di silicio con l’arsina o con la fosfina per ottenere drogaggio con arsenico o con fosforo rispettivamente.
I primi tentativi di sintesi di diamanti CVD avvennero in Europa nel 1911 (si usò acetilene in presenza di vapori di mercurio) e sebbene non ci siano conferme ufficiali, l’acetilene fu utile allo stesso scopo ai Tedeschi. Questa informazione viene classificata ufficialmente come una sorta di pettegolezzo, ma la tecnica base era nota da molto tempo, seppur non riferita alla sintesi dei diamanti, mentre è certo che i protocolli delle ricerche scientifiche tedesche in epoca nazista finirono all’estero offrendo un vasto campo di progetti innovativi ai governi ed alle industrie delle Forze Alleate. Ed i più importanti ‘cervelli’ della ricerca tedesca erano già, in parte, fuori dalla Germania nazista prima ancora della fine della guerra.
Comunque il 1950 è la data ufficiale a nostra disposizione. In quell’anno
H. Meincke riuscì sintetizzare diamanti usando la tecnica all’arco di carbonio in cui, ancora oggi, si sfrutta l’arco elettrico prodotto da due elettrodi di grafite (24, 25). Il lavoro scientifico di notevole rilevanza fu sostanzialmente ignorato e l’interesse per i diamanti sintetizzabili con la tecnica CVD dovette attendere gli anni ’80 per prendere vigore.
E’ difatti dopo questa data che l’attenzione aumentò enormemente. Il motivo era ragionevolmente da imputare al fatto che sino all’80 le tecniche di sintesi erano in corso di perfezionamento e solo da questo momento in poi fu possibile ottenere prodotti di qualità ed in quantità.
Le applicazioni erano correlate alla produzione di gemme (gioielleria) perfette, solitamente di dimensioni inferiori ad 1 carato (un diamante di discrete dimensioni per formarsi e mantenersi stabile abbisogna, in natura, di pressioni molto elevate), con possibilità di produrre anche quelli che sono i rarissimi diamanti colorati naturali (bastano opportuni dopanti (*9) e si ottiene un diamante colorato), alla produzione per usi industriali ma, soprattutto per ad assai più importanti applicazioni tecnologiche anche molto raffinate di cui abbiamo già accennato (26).
Stati Uniti, Unione Sovietica e Giappone furono i paesi in cui le tecniche CDV furono studiate ed implementate.
Il 1952 è l’anno in cui William G. Eversole dell’Union Carbide riuscì a produrre diamanti di vari tipi; gli sforzi della General Electric fatti tra il 1951 ed il 1956 per produrre diamanti sintetici a basse pressioni, non ebbero risultati soddisfacenti, per cui il progetto venne abbandonato. Il lavoro di Eversole venne ripreso da John C. Angus della Case Western Reserve University (USA) negli anni ‘60 con progressi significativi, tanto che riuscì a far crescere diamanti dopati con Boro in film: la nucleazione dei cristalli di diamanti avveniva su semi di diamanti naturali o sintetici in polvere (diamond grit).
In Russia Boris Derjaguin iniziò le proprie ricerche nel 1956 (sintesi a partire dal tetraioduro di carbonio), ma i suoi lavori furono pubblicati solo nel 1968. L’uso del Ferro fuso prima e dell’Idrogeno atomico poi permisero un incremento della velocità di crescita dei cristalli e la nucleazione dei diamanti su substrati differenti dai diamanti stessi (1976). Un progresso non indifferente visto che la nucleazione doveva avvenire su diamanti grit e la velocità di crescita era di circa 1 nm/h. Nel 1969 comunque i sovietici erano in grado di sintetizzare diamanti usando metano puro (temperature di sintesi tra 950-1050°C, pressione 13-40 Pa) e con una velocità di crescita superiore a quella riportata da Eversole.
Quando negli anni ’70 si iniziò ad usare Idrogeno atomico (USA ed URSS, scoperta indipendente) si potè ottenere la pulitura dei cristalli da indesiderati depositi di grafite.
Solo con Matsumoto, nel 1982 si ottenne una velocità di crescita di 1 mm/h su un supporto che non necessitava di diamond grit.
Quanto al Giappone fu Nebuo Setaka del NIRIM di Tsukuba ad iniziare, nel 1974, a lavorare sulle tecniche di sintesi a bassa pressione con risultati che furono in abbondanza pubblicati dal 1981.
Serviva comunque, come supporto per la nucleazione, polvere di diamante, si dovevano usavano insomma diamanti grit. Di Matsumoto abbiamo già detto. Nel 1987 Mitsuda scoprì che bastava passare il substrato con polvere di diamanti (scratching) per incrementare la densità di nucleazione. Ma per la tecnica dello scratching potevano andar bene anche ad esempio l’acciaio inossidabile o il Rame. In sintesi maggiore è l’abrasione determinata sul substrato, maggiore è la densità di nucleazione (27). Oggi per la nucleazione possono essere utilizzati molte varietà di materiali (crescita eteroepitassiale) e con molteplici metodi di pretrattamento (28) fermo restando che il diamante è comunque il materiale ottimale (crescita omoepitassiale).
Ai ricercatori giapponesi va essenzialmente il merito di aver perfezionato e modificato le tecniche CVD arricchendole di varianti che, tutte, hanno reso più produttiva le tecnica stessa. Non emtriamo ovviamente nel merito ed evitiamo l’elenco di queste modifiche, non è di nostra competenza. I principi essenziali su cui si basano sono la crescita dei cristalli in presenza di Idrogeno atomico, la dissociazione di gas contenenti carbonio, la crescita dei diamanti a temperature relativamente moderate (sino a 1200°C) e comunque non inferiori ai 500°C onde evitare la deposizione di grafite o la formazione di depositi di diamanti simili a carbonio (Diamond-Like-Carbon, DLC, *10) che non sono comunque inutili.
Certo è che gli sviluppi non sono terminati e le ricerche sono ancora in corso. Sarà il futuro a mostrarcene i risultati.
Ricordiamo infine comunque che, tra gli svariati metodi di sintesi dei nanodiamanti, esistono metodi PVD (Physical Vapour Deposition), spesso accoppiati con altri metodi. Un classico metodo PVD (ne citiamo uno solamente) usa laser ad eccimeri (Nd:YAG laser) che hanno come bersaglio la grafite che viene vaporizzata e precipita sul wafer cristallizzando in diamante. In questo caso si lavora a pressioni molto ridotte (10-6 mbar) in un’atmosfera di gas reattivo quale l’idrogeno o l’ossigeno (29); è anche possibile lavorare sotto vuoto. Per alleggerire l’argomento, interessante, ma francamente pesante, concludiamo con una notizia che sembrerebbe inventata per far sorridere, ma non lo è. E’ anzi l’oggetto di un serissimo brevetto di Allan J. West e James Kennett (USA) che prevede la produzione di nanodiamanti (oltre ad altri nanoderivati del carbonio) a partire da materie prime prevalentemente di origine vegetale (noci di cocco, carbone, lignite ad es.) schiacciate e carbonizzate allo scopo di produrre carbone attivato. E’ durante la produzione di carbone attivato che si formano anche nanodiamanti, specie se si limita la presenza di ossigeno. Il trattamento con un agente ossidante permette ed il recupero dei nanodiamanti che possono anche essere prodotti, purché si aggiunga metallo ed acido, sotto forme assolutamente non convenzionali quali fibre lunghe almeno 2000 nanometri suscettibili di tessitura (30). Per ciò che ci riguarda gli interessi medici e biologici per i nanodiamanti sono notevoli, stanti le complesse caratteristiche chimiche di superficie. Le possibilità del loro utilizzo coprono un vasto spettro di applicazioni pratiche che si basano oltre che sulle loro peculiari caratteristiche anche sulla loro spiccata biocompatibilità. Si va dalla possibilità di utilizzarli come carrier di farmaci (anche a lento rilascio, quando montati su biofilm) contro le neoplasie maligne o addirittura come carrier di geni opportunamente scelti nella terapia genica, alla possibilità di utilizzarli nella diagnostica radiologica (risonanza magnetica nucleare) come agente di contrasto dai risultati spettacolari specie se coniugati con Gadolinio. Per i biologi e per i medici l’utilità dei nanodiamanti sta anche nella possibilità di studiare direttamente singole cellule, seguirne i comportamenti nel corso del tempo (31), dato il ridotto fenomeno di photobleaching (la rapida distruzione fotochimica di un colorante fluorescente). I nanodiamanti possono permettere di riconoscere come target recettori o singole molecole; i limiti della normale microscopia ottica possono essere agevolmente superati utilizzandoli nella costruzione delle ottiche. Possono, in base allo stesso principio, migliorare la microscopia confocale, la citometria a flusso, la microscopia Raman (microscopia ottica combinata con spettroscopia Raman), la microscopia a forza atomica, la microscopia a contrasto di fase apportando importanti benefici sia nella ricerca che nella diagnostica affinandone i risultati. I primi comuni usi dei nanodiamanti come lubrificanti per motori di aerei, camion, carri armati non solo non sono stati abbandonati, ma hanno anzi acquisito ulteriore grande interesse anche in campo medico; così come lo hanno acquisito gli altrettanto iniziali usi nella produzione di rivestimenti altamente resistenti all’usura meccanica. Basti pensare alle resine e/o ai metalli usati in odontoiatria nelle terapie ortodontiche ricostruttive/sostitutive o ancora alle protesi ortopediche che in discrete percentuali determinano oggi una serie di problemi per la salute dei pazienti che nei siano portatori. I nanodiamanti possono in questi casi non solo offrono la possibilità di costruire materiali molto resistenti, chimicamente inerti, biologicamente assai più accettabili di quelli normalmente utilizzati, autopulenti, ma anche di materiali in cui l’attrito sia fortemente ridotto, risolvendo molti dei problemi tribiologici che affliggono l’ortopedia nell’utilizzo di vari tipi di protesi (*11). I nanodiamanti possono costituire barriere di diffusione antiallergiche (32), possono persino riconoscere agenti patogeni e rimuoverli, ad esempio da acque contaminate, se opportunamente funzionalizzati mediante glicoconiugazione (33). Si potrebbe usarli per l’adsorbimento di molecole tossiche quali ad esempio le aflatossine e si potrebbe ancora continuare.
Sembra, quello dei nanodiamanti, il mondo di ‘Alice’s Adventures in Wonderland’, ma in questo mondo meraviglioso non tutto è, o è sempre stato, buono e perfetto.
L’articolo completo di figure sarà reperibile nel Gruppo Nanoscienze e medicina.
Note a piè pagina:
*1L’invenzione originaria è di Carl Wilhelm Siemens (4/4/1823 Lenthe, 19/11/1883 Hanover), ingegnere tedesco di nascita che ottenne la cittadinanza britannica e che fu insignito del titolo di Sir, dopo la sua morte dalla regina Vittoria. Famoso il processo Siemens-Martin utilizzato nei forni utili alla produzione dell’acciaio.
*2Sir William Crookes (17/6/1832-4/4/1979) chimico e fisico inglese inventò il radiometro, i tubi di Crookes grazie ai quali furono scoperti i raggi X, nel 1861 scoprì il Tallio.
*3Qualche dubbio personale sul ‘negazionismo’ di Parsons lo abbiamo: negli spinelli il carbonio non c’è…Magari si tratta di nostra incompetenza.
*4Nato a Malmo il 24-2-1898 e morto a Ysradr il 29-4-1984 fu inventore oltre che esperto in matematica, fisica ed astronomia. I frigoriferi Electrolux devono il sistema di raffreddamento ad una sua invenzione.
*5Ingegnere meccanico, nato a Stoccolma nel 1928 e morto nel 1984.
*6Quella di De Carli, di origini italiane, è una storia scientifica dolce-amara. Nato a Stockton in California nel 1930, lavorò alla Stanford Research Institute, oggi SRI International, come aiutante ed esperto di esplosivi. Solo nel 1957 ottenne in BS in metallurgia, né a tutt’oggi ha titoli altisonanti. De Carli non ha nel suo curriculum né master, né PhD. Al conseguimento di quest’ultimo titolo, pensò, ma non ebbe mai il tempo per dedicarvisi. Però i nanodiamanti riuscì a sintetizzarli. Era il 1959. Solo nel 1961 Jamieson lo accettò come coautore del lavoro ‘Formation of diamond by explosive shock’. Oggi, nel suo curriculum Mr. De Carli, ha un bel numero di premi e di medaglie che ben riconoscono la qualità scientifica del suo lavoro. De Carli, nonostante l’età è ancora attivo tanto che nel gennaio 2013 è appena uscito su Nature Communications un suo lavoro
*7Robert Wilhelm Eberhard Bunsen (31/3/1811-16/8/1899) chimico e fisico tedesco
*8Henry ètienne Saint-Claire Deville, chimico francese (11/3/1818-1/7/1881). Riuscì, tra l’altro, a sintetizzare apatite e ai medici è ben nota una delle sue specie: l’idrossiapatite.
*9Il dopaggio con Boro conferisce colore blu, con Azoto su ottiene colore giallo, il nero deriva dalla grafite. Si possono ottenere anche molti altri colori e si possono anche modificare i colori dei diamanti naturali mediante una serie di trattamenti che vanno dall’HPHT, all’irradiazione o più semplicemente ‘verniciandoli’: in questo caso si usano aghi di borazon (nitruro di boro) cioè cristalli di boro e azoto, prodotti per la prima volta nel 1957, ad alte temperature e a pressioni di 7Gpa.
*10I rivestimenti DLC sono estremamente utili per la loro compattezza e per la resistenza alla corrosione, per il ridotto attrito. Duri come il diamante e scorrevoli come la grafite, debbono le loro caratteristiche alla presenza di legami Sp3 ed Sp2 tipici rispettivamente del diamante e della grafite. La distribuzione dei legami Sp2/Sp3 può essere modulata utilizzando una tecnica opportuna come la PACVD una combinazione di CVD e PVD (Physical Vapour Deposition). Si tratta di rivestimenti antiallergici, antigraffio, isolanti, biocompatibili che trovano applicazioni anche in campo medico, nell’industria alimentare, in quella aero-spaziale etc.
*11E’ attualissimo il ritiro del manicotto diafisario del Limb Presevation System della De Puy utilizzato nella ricostruzione di gravi lesioni dei tessuti molli e delle ossa del ginocchio (traumi, tumori, artroplastiche multiple). Il manicotto diafisario è a rischio rottura nel punrro di impianto con la sua base. Si tratta di una protesi MoM costituita da elementi modulari i cui problemi erano noti, seppure in forma non ufficiale alla De Puy già dal 2010. Il procedimento di ritiro dei sistemi non ancora usati è iniziato il 15-1-2013.
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"Chiediamo il sostegno del Presidente Mattarella, per richiamare la cittadinanza. Sarebbe paradossale che le organizzazioni sindacali dovessero trovarsi a ragionare su un possibile sciopero contro i cittadini nella veste di pazienti"
"Per molti presidenti di Regione i medici di medicina generale dovrebbero diventare dipendenti del Servizio sanitario nazionale". "Mancano 4500 medici e 10mila infermieri"
Rea (Simg Lazio): “Tra le principali esigenze, è fondamentale l’inserimento di personale infermieristico e amministrativo. Come le farmacie dei servizi ricevono investimenti anche la Medicina Generale può moltiplicare le sue funzioni”
Questo codice, attualmente in vigore, limita fortemente la possibilità di dar seguito a uno sciopero vero ed efficace, ostacolando di fatto qualsiasi iniziativa
"Chiediamo il sostegno del Presidente Mattarella, per richiamare la cittadinanza. Sarebbe paradossale che le organizzazioni sindacali dovessero trovarsi a ragionare su un possibile sciopero contro i cittadini nella veste di pazienti"
"Per molti presidenti di Regione i medici di medicina generale dovrebbero diventare dipendenti del Servizio sanitario nazionale". "Mancano 4500 medici e 10mila infermieri"
Rea (Simg Lazio): “Tra le principali esigenze, è fondamentale l’inserimento di personale infermieristico e amministrativo. Come le farmacie dei servizi ricevono investimenti anche la Medicina Generale può moltiplicare le sue funzioni”
Questo codice, attualmente in vigore, limita fortemente la possibilità di dar seguito a uno sciopero vero ed efficace, ostacolando di fatto qualsiasi iniziativa
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