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Cassazione, il medico è responsabile della morte del paziente se lo indirizza in ospedale senza trasmettere la sua valutazione specialistica. Condannato per omicidio colposo

Professione Redazione DottNet | 17/06/2012 10:44

La Cassazione ha sancito che risponde del decesso del paziente il medico che lo indirizza a un ospedale senza trasmettere ai colleghi un'analitica valutazione specialistica, che fornisca loro il quadro esatto della patologia e della gravità della situazione clinica. Vediamo nel dettaglio il caso e perché la suprema Corte ha deciso che consigliare al paziente di rivolgersi a una struttura ospedaliera non esonera il professionista dalla responsabilità per il decesso dell'utente, se non invia anche una valutazione specialistica, indispensabile a inquadrare la situazione clinica e a evitare ritardi nella cura.

In pratica se il medico non è in grado di assistere il paziente perché in quel momento non ha gli strumenti necessari deve in ogni caso fare di tutto affinché il malato abbia cure e tutele, come  afferma la Corte di cassazione, sezione quarta penale, con la sentenza 13547, depositata lo scorso 11 aprile. L’accusa di omicidio colposa ha riguardato un gruppo di medici  ritenuti responsabili della morte di un ragazzo, avvenuta in seguito a un grave shock settico e a stasi ematica acuta. Il giovane paziente, diciannove anni, era stato colpito da un grave ascesso dentario, per cui viene portato in ospedale  in preda a forti dolori. Ma il responsabile  del pronto soccorso, pur riscontrando una seria patologia, inefficace alla terapia antibiotica, lo dimette senza effettuare o disporre l'incisione della parte infettata. Il ragazzo si rivolge, quindi,  al suo dentista, il quale – non potendo intervenire, per mancanza di strumenti e personale adeguati – lo invita a recarsi presso una struttura ospedaliera. Dopo essere stato ricoverato due volte, e subito dimesso, il ragazzo perde la vita.

Di qui, la condanna dei medici che l'avevano seguito, colpevoli dell'omessa incisione dell'ascesso, degenerato in mediastinite, con conseguente sofferenza cardiaca diffusa ed edema polmonare emorragico. Assolto, invece, il dentista, non colpevole, secondo i primi giudici, della morte del paziente perché lo ha correttamente indirizzato a un ricovero, vista la mancanza delle condizioni a operare. Tuttavia la Corte d’appello ribalta la sentenza confermando sì la condanna dei sanitari ospedalieri per la prevedibilità dell'aggravarsi della prima patologia, ma capovolge  la posizione processuale del dentista. Che, secondo i giudici di secondo grado, non si doveva limitare a consigliare il ricovero, ma seguire il percorso di cura del suo paziente, fornendo opportuna valutazione specialistica ai colleghi che l'avrebbero preso in cura. La Cassazione avalla la sentenza dei giudici di merito:  il professionista doveva «assicurarsi che i medici di destinazione fossero informati in modo preciso della gravità della situazione».
Nel sostenerlo, il collegio di legittimità coglie l'occasione per ricordare come in tema di colpa medica «in presenza di una condotta colposa posta in essere da un determinato soggetto, non può ritenersi interruttiva del nesso di causalità una successiva condotta parimenti colposa posta in essere da altro soggetto, quando essa non abbia le caratteristiche dell'assoluta imprevedibilità». E questa condizione, aggiunge la Suprema corte, non si può configurare nell'ipotesi di inosservanza, da parte di un sanitario successivamente intervenuto, di regole dell'arte medica già disattese dal precedente collega. Ebbene, nel caso esaminato, non ci sono dubbi circa la responsabilità, per colpa generica e specifica, dei professionisti che avevano omesso di operare il ragazzo. Ciò precisato, la Suprema Corte, pronunciandosi sulla condotta del dentista, puntualizza che l'addebito colposo ravvisato a suo carico discende dalla circostanza che l'imputato, pur avendo le competenze per riconoscere la gravità della patologia, non ha redatto – e trasmesso ai colleghi – un'analitica certificazione medica inerente le condizioni del malato, utile ad agevolare i successivi interventi e a segnalarne l'urgenza. E ha così contribuito a ritardare l'erogazione di quell'assistenza diagnostica e terapeutica «che avrebbe evitato il decesso». Va affermato, dunque, il principio per cui «una volta che un paziente si presenta presso una struttura medica chiedendo l'erogazione di una prestazione professionale, il medico, in virtù del contatto sociale, assume una posizione di garanzia della tutela della sua salute e anche se non può erogare la prestazione richiesta deve fare tutto quello che è nelle sue capacità per la salvaguardia dell'integrità del paziente».

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