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Dall'Espresso: quando la mente perde i ricordi

Neurologia Redazione DottNet | 30/01/2009 12:14

La memoria svanisce. Come la percezione della realtà, i freni inibitori, le emozioni familiari e la sensazione stessa di essere malati. La chiamano 'demenza', ma chi ne soffre vede svanire molto più dei propri ricordi, perché il termine medico indica una disabilità cognitiva abbastanza grave da interferire nelle attività quotidiane di cui la perdita di memoria è solo una caratteristica. Ma non necessariamente la più drammatica. Uno dei massimi esperti di questo mondo a parte in cui vivono molti anziani è Jeffrey L. Cummings, responsabile dell'Alzheimer Disease Center dell'Università della California a Los Angeles, che ha realizzato il Neuropsichiatric inventory, strumento terapeutico usato per classificare i cambiamenti comportamentali nelle malattie neurologiche. Lo abbiamo incontrato a Napoli, al congresso della Società italiana di Neurologia, per farci spiegare cosa c'è davvero dall'altra parte.

 

Come si vive con un anziano svagato?

"Cominciamo a definire i sintomi comportamentali della demenza. Che spesso vengono trascurati, mentre hanno un impatto devastante sui familiari e rendono il paziente poco gestibile. In questo modo riusciamo a capire quali tra i pazienti affetti da decadimento cognitivo lieve presentano anche sintomi comportamentali, come depressione, irritabilità o apatia. E sono più a rischio di sviluppare una demenza".

Come si fa?

"Talvolta prevalgono disinibizione, comportamenti inappropriati, mancanza di tatto e di empatia, e in questo caso siamo di fronte a una malattia che colpisce l'area fronto temporale del cervello. Il 40 per cento dei pazienti con Alzheimer, invece, soffre di depressione, il 60 ha periodi di agitazione, con comportamenti aggressivi che si possono manifestare con insulti, grida e gesti violenti. E il 20 per cento soffre di allucinazioni, che spesso scatenano ostilità e gelosia, i pazienti credono di essere in pericolo o di trovarsi accanto un estraneo".

Un comportamento simile a quello di uno schizofrenico?

"Nella schizofrenia sono più frequenti allucinazioni uditive, il 'sentire voci', nella demenza quelle visive. Anche gli atteggiamenti deliranti sono diversi, mancano i deliri di grandezza e le manie religiose tipiche della schizofrenia, mentre ci può essere la sensazione di essere tradito o derubato dai familiari. Sono i problemi che causano un maggiore stress emotivo e psicologico in chi assiste il malato. E spesso spingono le famiglie a ricoverare i pazienti".

Sarebbe meglio seguirli a casa?

"È una scelta che dipende molto dalla cultura e dal paese di origine. Non dico che sia necessariamente la soluzione migliore, anche se sappiamo che quando possibile i pazienti vivono meglio in un ambiente familiare".

Come si fanno a cogliere i primi sintomi della malattia?

"È ancora diffusa la convinzione che la demenza faccia parte del normale processo di invecchiamento, e c'è una sorta di benevola cospirazione, assolutamente non intenzionale, che spinge a non intervenire quando si manifestano i primi sintomi. Negli Stati Uniti abbiamo già testato con successo un questionario in grado di fare emergere difficoltà nello svolgere i compiti quotidiani, come preparare i pasti e fare i conti, oppure cambiamenti caratteriali".

Sintomi che devono preoccupare?

"Anche se è destinato ad aggravarsi, in una prima fase un paziente è in grado di mantenere i contatti col mondo. I test sono utili per individuare segnali allarmanti che spesso vengono sottovalutati. Distinguere tra una certa perdita di memoria, normale a una certa età, e l'incapacità di archiviare nuove informazioni".

Diverso dalla difficoltà a ricordare un nome..

"Capita di sentire familiari chiedere: come è possibile che soffra di demenza se ricorda cose successe mezzo secolo fa? È possibile, fa parte delle caratteristiche di queste malattie. Naturalmente, per arrivare alla diagnosi si usano anche strumenti, come test cognitivi specifici e biomarkers. Oggi la puntura lombare permette di individuare quantità alterate di proteine amiloide e tau, caratteristiche della malattia, mentre la Pet è in grado di mostrare placche di proteina amiloide anche asintomatiche. Siamo sempre più vicini a una diagnosi precoce".

Che pone anche problemi etici. Fino a che punto un paziente può essere informato sulla malattia?

"Io cerco di essere molto diretto. È importante essere chiari: i malati sanno che qualcosa non va, ed è inutile tacerglielo".

La depressione di cui tanti pazienti soffrono non può essere motivata dall'angoscia per la loro condizione?

"Ovviamente se un paziente percepisce quello che gli sta succedendo, questo può influire sul suo umore, ma la depressione in senso clinico è qualcosa di diverso, con un connotato neurobiologico importante. Nello stadio iniziale della malattia è naturale che un paziente si preoccupi, ma anche nelle forme più leggere spesso manca un vera consapevolezza della propria condizione, forse perché questa è una delle funzioni cerebrali più sofisticate, e una delle prime a subire danni. In genere non credo che questi pazienti siano infelici, perché non hanno molta coscienza del loro stato: non ricordano di non ricordare.".

Cos'è allora che provoca il turbamento, l'agitazione?

"L'agitazione che colpisce l'80-85 per cento dei pazienti più gravi nasce dal disorientamento, dalla paura: la demenza toglie la capacità di interpretare l'ambiente che abbiamo intorno. Pensiamo a un gesto familiare come entrare nella doccia: immaginiamo di non ricordare di cosa si tratta e che qualcuno ci conduca in un ambiente ristretto, una scatola che fa rumore e dove succedono strane cose. Vista così, la reazione di paura è giustificata. E si ripete per tutte le situazioni che non sono più familiari".

Come si può intervenire?

"Quando si arriva a questo punto la comprensione verbale è sicuramente compromessa. Si può provare con un atteggiamento rassicurante, oppure attraverso il tocco e il tono della voce, per far capire che non c'è niente di cui avere paura. Senza dare mai niente per scontato e senza aver paura di ripetersi. Per affrontare i problemi comportamentali poi ci sono precise strategie"

Per esempio?

"La strategia delle tre 'R': ripetere, rassicurare, riorientare. In altri termini, aiutare il paziente a rendersi conto dell'ambiente in cui si trova, spiegare costantemente cosa sta succedendo. E non contraddirlo: inutile cercare di convincere un malato che nessuno lo sta derubando, meglio dirigere altrove la sua attenzione. Un altro schema che può essere di aiuto è il cosiddetto Abc, una strategia che suggerisce di cercare di capire i comportamenti anomali o patologici analizzandone gli Antecedenti, il comportamento stesso - Behaviour - e le sue Conseguenze. Alcuni sintomi di difficile gestione come l'agitazione possono avere cause ambientali: prestando attenzione a quando si manifestano si può scoprire ad esempio che un eccesso di stimoli - troppi familiari in visita - può essere controproducente".

Anche l'ambiente in cui il malato si muove può aiutare?

"È utile un ambiente in cui il paziente può muoversi in sicurezza, ma senza sentirsi prigioniero né percepire limitazioni, per esempio un giardino in cui non ci siano piante".

Lei ha scritto che la demenza colpisce i familiari quanto il malato.

"Finora si è pensato troppo poco alle famiglie. Fare di più vorrebbe dire anche garantire ai malati un'assistenza migliore".

Quanto sanno gli scienziati della malattia?

"Nel cervello dei malati di Alzheimer, la forma di demenza più comune tra gli anziani, succede qualcosa che impedisce la rimozione dei depositi di proteina amiloide, che attivano una serie di processi molto lenti e portano alla morte dei neuroni e quindi alla demenza. Quello che dovremmo capire è perché alcuni si ammalano e altri no. Gli studi più recenti si concentrano sull'interazione tra le placche di proteina amiloide e le proteine tau, che giocano un ruolo importante in diverse forme di demenza. Sembra che gli aggregati anomali di proteina amiloide favoriscano i grovigli neurofibrillari di proteina tau che interferiscono con le capacità cognitive".

Sono state annunciate novità importanti anche sul fronte delle terapie.

"Non dobbiamo dimenticare i farmaci di cui già disponiamo per l'Alzheimer, gli inibitori della colinesterasi che si sono rivelati efficaci in molti studi clinici. La formulazione transdermica, il cerotto, è utile perché facilita la somministrazione. Adesso si sta guardando a una nuova generazione di farmaci che potrebbero frenare l'andamento della malattia anziché intervenire solo sui sintomi permettendo ai pazienti di funzionare meglio per un periodo più lungo"

Di cosa si tratta?

"Il farmaco più promettente al momento è il dimebolin, un vecchio antistaminico che si è rivelato efficace come neuroprotettore e agisce anche sui mitocondri che alimentano la cellula: potrebbe arrivare sul mercato per il 2011 perché sta procedendo molto bene e sono possibili sperimentazioni più brevi, sei mesi invece dei 18 mesi dell'immunoterapia".

Questo per l'Alzheimer, ma esistono farmaci per i disturbi del comportamento?

"Gli inibitori della colinesterasi agiscono sul comportamento oltre che sulla memoria. Quando un paziente manifesta aggressività o apatia può essere sottoposto a questo tipo di trattamento, e se questo non è sufficiente si usano antipsicotici o antidepressivi. Che in genere sono efficaci per controllare i sintomi, anche se vanno usati con attenzione: è aumentato rischio di mortalità legato al consumo di antipsicotici da parte di pazienti anziani affetti da demenza".

E sul piano della prevenzione?

"I fattori che riducono il rischio sono una dieta sana e ricca di antiossidanti, l'esercizio fisico regolare e un buon livello culturale. Più in generale è importante controllare ipercolesterolemia e ipertensione ed evitare traumi alla testa. Oggi si sta lavorando su alcuni supplementi alimentari come la curcumina e il Dhea che potrebbero svolgere una funzione protettiva. C'è però da dire che studi epidemiologici mostrano una diffusione uniforme della malattia in tutto il mondo, a prescindere dallo stile di vita o dalla dieta".
 

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